Chissà cosa penserà in questo momento Valerio Staffelli a vedere i titoloni dei giornali e le recensioni di 1969, l’ultimo attesissimo album di Achille Lauro.
Avendogli fatto un incredibile favore, probabilmente il cronista di Striscia la Notizia si sentirà partecipe del successo del trapper latino, come lui stesso ama definirsi. Premesso che accusare qualcuno di incitare alla droga quando si è passata la vita a bulleggiare la gente è veramente di cattivo gusto, di certo la polemica non ha fatto altro che scatenare una vera e propria esegesi dei testi di Achille Lauro, che alla fine sono risultati più interessanti del previsto. A provare ad interpretare il testo di Rolls Royce, oltre a mezzo mondo e al direttore di Sanremo Claudio Baglioni, ci si è cimentato anche Morgan con il risultato che la canzone è risultata un mezzo capolavoro post-moderno alla Arbasino.
Tutto fa brodo del resto e la polemica ha permesso a molti di avvicinarsi al mondo di Achille Lauro, illuminando un disco che magari altrimenti sarebbe passato più inosservato.
Disco che comunque andava ascoltato, del resto, perché delle originalità ci sono davvero e scorrendo le tracce si colgono chiaramente.
Prima vera novità è il ponte di collegamento lanciato tra la “giovanilista” trap e il vecchio rock. Siamo in una nuova fase del rock, non è più massa e trasgressione ma opera d’arte, un po’ imbalsamato se vogliamo, ma oramai assurto a classico. In questa veste la storia del rock ha un valore mitico, lo si guarda con rispetto anche quando lo si tradisce e si cerca di farlo rifiatare attraverso alcune dettagli modernisti.
Non che il rock abbia bisogno di Achille per essere rianimato, ci sono migliaia di band che ogni sera nel mondo aggiornano il vocabolario del rock arricchendolo di linfa giovanile, ma che la storia del rock ritorni ad essere glamour davvero, è un fattore che può coinvolgere un pubblico distratto su un’importante categoria dello spirito.
L’altre novità di 1969 è che il suono di Achille Lauro alla fine convince, l’auto-tune si sposa con la chitarra e la batteria. Insomma in un matrimonio che si rispetti tutto ciò che porta divertimento e gioco è apprezzato e se la botta arriva dall’autotune ben venga.
Anche qui, il buon Achille non è mica il primo a mescolare gli elementi, pensate agli U2 dell’ultimo album o persino a Cat Power, ma pensate anche che trent’anni fa i Run DMC facevano un pezzo campionando la chitarra e la voce di Steven Tyler e soci in quello splendido capolavoro chiamato Walk this way.
Insomma 1969 si preannuncia un album importante e, almeno a giudicare la copertura stampa e il numero delle recensioni, di sicuro non siamo di fronte a paccottiglia.
Detto ciò, ascoltando il lavoro di Achillle Lauro le aspettative non rimangono deluse. Non siamo probabilmente di fronte a Rimmel di De Gregori o Crêuza de mä di De Andrè, ma di sicuro il disco ha una buona pasta.
L’apertura ovviamente è affidata a Rolls Royce, pezzo di cui onestamente penso sappiate già tutto, mentre al secondo posto troviamo C’est la Vie, singolo scelto in occasione dell’uscita dell’album. Pezzo buono, un po’ maledetto che gioca con l’aria di Nouvelle Vague alla Gainsbourg, dove Achille Lauro apre il cuore alla poesia. Anche in Je t’aime e Zucchero si respira quest’aria un po’ esistenzialista, tra Los Angeles e la California, in cui tutto sommato Achille Lauro gioca bene, risulta credibile.
Personalmente ho amato molto la parte più rock’n’roll del disco, pezzi come Delinquente, Sexy Ugly e Cadillac che riassumo il discorso fatto prima in testi assolutamente iconografici e chitarre a sferzare col gain a manetta nell’amplificatore.
Si trovano tanti rimandi in questo modo di fare rock’n’roll, Marilyn Manson ma anche Lana Del Rey.
Forse avevano ragione i Sex Pistol e il rock’n’roll è tutta una truffa in cui però, il profumo di infinito che si respira è l’unica cosa importante che conta.
E di infinito, di malinconia, nel disco di Achille Lauro ne troviamo, quindi, infine, possiamo ad ogni titolo categorizzarlo come un vero disco rock. E scusate se è poco.