I hate my village – Che bel disco d’esordio

Cosa ci fanno Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Alberto Ferrari (Verdena) insieme? Molto semplice fanno una super band che si chiama I hate My Village

Che in questo periodo la musica italiana goda di grandissima salute non è più neanche un tema interessante da affrontare, ma accanto a progetti indie-pop di tutto rispetto (Calcutta, The giornalisti, Coez) una cosa davvero interessante che sta succedendo è il fenomeno dei super gruppi. Veri e propri ensamble formati da componenti di band diverse e più blasonate, questi corpi nuovi della musica italiana stanno sformando grandi dischi e grandi idee. Se il fenomeno delle super band durante i primi anni del millennio è andato fortissimo e ha sfornato grandissimi progetti, su tutti Audioslave e The Raconteurs, in Italia il fenomeno è arrivato negli ultimi tre o quattro anni. Giusto per dovere di cronaca vi ricordo che negli Audioslave militava il compianto Cris Cornell e che i The Raconteurs con Consolers of the Lonely hanno scritto l’album rock più bello degli ultimi vent’anni.

Detto questo torniamo a bomba in Italia dove le super band prolificano e sfornano album e performance davvero eccezionali, ne voglio citare almeno due. I Dunk, formati dai fratelli Giuradei, Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi e Luca Ferrari dei Verdena e i The Winston che annoverano Enrico Gabrielli (ok, non vi dico chi è), Roberto Dell’Era (Afterhours) e Lino Gitto (Lato B). Due band, i Dunk e i The Winston, che per chi ha assistito ad una loro performance non sarà difficile spiegare quanta potenza e quanta creatività sanno sprigionare. A questo splendido panorama si aggiungono ora gli I hate my village, band appunto che vede Fabio Rondadini, Adriano Viterbini tra le proprie fila ed un apporto non solo chitarristico di Alberto Ferrari dei Verdena. Anticipato dal singolo “Tony Hawk of Ghana” i tre hanno presentato al mondo il 17 Gennaio un album compatto e originale a cui hanno dato il nome della band I Hate my Village, prodotto da Marco Fasolo e pubblicato da La Tempesta dischi.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da tre elementi “rock” come quelli appena sopracitati il disco ha pochissimo a che spartire con l’immaginario americano e britannico. Escluso forse un certo gusto per l’estetica rock-garage di foto e copertina, l’album si presenta come un caleidoscopio di suggestioni etniche e folk contaminante, certo questo sì, con un certo gusto punk.

La voce di Alberto Ferrari soprattutto colpisce con una vocalità che non disdegna il pop internazionale e addirittura la melodia tradizionale in alcuni casi. Si fatica a collegare Ferrari a questi intrecci sonori e vocali, ma questo ovviamente è un pregio per il musicista bergamasco.

Le chitarre sono tutte girate su stesse ed ipnotiche, proprio come quelle che si potrebbero ascoltare ad un concerto di Bombino o dei Tinariwen, con un gusto che però non scimmiotta mai l’altrui fortuna ma che anzi la adatta al proprio linguaggio. Per le ritmiche scelte di Rondanini invece serve una sola parola: amazing. Sì la batteria e le percussioni del musicista già dei Calibro 35 è semplicemente straordinaria, un inseguirsi di idee e bellezza che non può non colpire sin dal primo ascolto.

Gli echi sono tanti e non solo dentro al mixer, ci sono ascolti belli del passato che rimandano ai The Rolling Stones di Exile on The Main Street e ad alcuni esotismi degli anni ottanta.

Il primo brano è appunto il singolo Tony Hawk of Ghana, un mantra agile e forte che guida una serie di tessuti sonori che si muovono sotto la bella linea vocale di Alberto Ferrari.

Presentiment è roots come da inizio, con una chitarra che si attorciglia su se stessa e una batteria che più grezza si può ascoltare solo a Nairobi. Acquaragia gioca ancora con la ripetitività dei ritmi ma questa volta tutto è aperto verso un orizzonte più da viaggio e arioso, in generale più sereno.

Pura energia per la quarta traccia Location 8, breve e coincisa. Per Tramp (forse un gioco di parole?) troviamo una batteria a scandire la chitarra ed in generale un pò di ipnotismo lento che rimanda più ad ambienti notturni e sotterranei.

Fare fuoco è un pezzo che ha degli anni ‘70 con Alberto che si trova a suo agio nel ruolo di fomentatore ma anche di voce guida di un ritornello divertente e potente.

Lenta è vagamente malinconica e Fame, pezzo in cui gli stacchi di chitarra lasciano ampi spazi di riflessione, un po’ come per Bahum pezzo che lascia immaginare una notte passata tra i fuochi del Sahara a rimeditare sulla vita. Infine chiude l’album I Hate my Village, pezzo che da il titolo all’album e in cui i contro ritmi si sprecano e si sovrappongono, creando un piacevole senso di smarrimento e follia.

Un album a cui auguriamo grande fortuna quello degli I Hate My Village e che speriamo apra nella musica italiana la breccia per parlare non solo di canzonetta e ritornello ma anche di mondi sonori lontani e più complessi.

Su Piggy the pig

Nasce negli anni 80 con ancora l'eco delle chiamate londinesi. Quando ci arriva a Londra è scoppiato il Brit-pop, intanto le urla del grunge scendono sotto pelle. Ama il vino rosse e le birre rosse, ascolta musica per non piangere ma a volte gli fa l'effetto contrario.

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