Brunori Sas, A casa tutto bene. La non recensione

Dario Brunori torna a distanza di tre anni con un album molto interessante, che getta un ponte capace di unire il cantautorato classico, quello di qualche decennio fa per intenderci, a quello odierno. Un disco denso che propone una ricercatezza e una qualità per nulla fini a se stesse, ma assolutamente democratiche e soprattutto godibili

 

Qualche giorno fa parlavo, o meglio, ascoltavo l’arringa di un amico esperto di musica che di ritorno da un concerto di Dente, si era prodotto in lodi sperticate sul cantautore fidentino. I giudizi più interessanti trovavano spunto sul “confronto” con altri esponenti della scena musicale attuale, tra cui appunto Brunori, definito, cito testualmente: “Quello bravo ad alternare affermazioni provocatorie e coraggiose ad altre nazional popolari che buttano subito acqua sul fuoco”.

Ora, mi rendo conto che iniziare una recensione parlando di un altro artista è un po’ una boiata, però quel giudizio tagliente su Brunori, arrivatomi dopo che per due giorni avevo ascoltato in loop “A casa tutto bene”, mi ha completamente spiazzato. Non tanto per il giudizio in sé, che quello è figlio della sfera personale, ma per quello che si portava dietro. La domanda, in buona sostanza era questa: cosa diavolo è un cantautore oggi?

Non è facile rispondere, perché di acqua sotto ai ponti ne è passata, specialmente da quel periodo in cui venne coniata la definizione e dove i cantautori, i mostri sacri di oggi, muovevano le masse parlando oltre che d’amore (che alla fine dai, di che altro vuoi parlare?) di politica e di sociale, il tutto in un periodo in cui schierarsi era una scelta che portava a delle conseguenze, e non solo perché venivi additato come pesante, o peggio ancora come “loser”. Gli anni 60-70 ci hanno regalato gente capace di cesellare perle di una bellezza inspiegabile eppure in grado di far discutere all’infinito, penne (e chitarre) capaci di far nascere canzoni che aderivano addosso come un guanto e che, anche a distanza di anni, pur parlando una lingua universale, ogni volta che il disco riparte sanno riportarti in quel mondo così vivido che sembra essere stato disegnato apposta per te. E ci riuscivano perché pur partendo dal fatto concreto, o dalle emozioni, che quelle si sa non cambiano mai, in sostanza, sapevano rendere universale il particolare.

Oggi -e tra poco la smetto e mi metto a parlare del disco Brunori- il panorama è molto diverso e la definizione di cantautore ha preso una definizione decisamente liquida. Oggi definiamo cantautori un sacco di artisti che hanno tutto il diritto di esserlo, ci mancherebbe, ma che lo sono in maniera completamente differente, per tematiche trattate e per complessità. Associamo -ad esempio, e sempre per restare nella scena indie- gente che fa cose diversissime, più o meno valide e, a seconda dei gusti, più o meno orecchiabili: da Brunori, appunto, a Mannarino (uno che piace solo se sei fuori dalla cerchia dei Bastioni, e io ‘sta cosa mica l’ho ancora capita) a Dente, a I Cani, alle Luci, ai Thegiornalisti, ai Baustelle e pure a Calcutta, visto che va un casino quest’anno.

Per quanto sembri essere uno sport nazionale tra certi critici, a mio avviso è del tutto inutile pensare di paragonare i cantautori di 30 anni fa a quelli di adesso, sarebbe ingiusto nei confronti di quelli attuali, le cui opere potranno essere definite immortali, se mai lo saranno, solo tra qualche decennio, quando il tempo ci consentirà una visione più obiettiva dei loro lavori. E in ogni caso, ne sono convinto, anche se Tommaso Paradiso un giorno scriverà qualcosa di realmente grande come ad esempio Lilly, tanto per citare uno a cui si ispira, sarà comunque inutile fare paragoni, semplicemente perché non ci sono più il contesto sociale e i fruitori di 30 anni fa. Le priorità in chi ascolta sono altre, forse meno impegnate, gli interessi di chi fruisce musica sono cambiati, la vita e i bisogni di ognuno sono cambiati e con loro anche la musica stessa, che a causa di molti fattori, televisione e web in primis, è diventata più un qualcosa da masticare e digerire in un lampo, piuttosto che un regalo prezioso da lasciare decantare e aspettare che ti entri dentro con la forza che solo le cose belle hanno. Oggi, chi scrive musica, e sì, anche le nuove leve del cantautorato italiano, puntano al particolare, al contingente, perché di fare i conti con l’universale sono rimasti in pochi ad averne voglia. 

Ecco, per quello che mi riguarda, Brunori con questo disco ha gettato un ponte tra quello che era e quello che è, oggi, la musica. E lo ha fatto non scimmiottando De Gregori e compagnia cantante, ma trovando una sintesi tra la tradizione cantautoriale italiana -che c’è, stracazzo, e non la si può nascondere a colpi di svastiche in centro a Bologna, né dimenticare con litri di lexotan, né tantomeno seppellire sotto cumuli di spiagge deturpate- e quello che la gente vuole sentire oggi. Arrivare ad avere il coraggio di disegnare in maniera così vivida una condizione di disagio -come ad esempio quella di chi vive un’età di mezzo come possono essere i 40, dove il cuore è ancora capace di sogni, ma la testa inizia a perdere il coraggio per realizzarli- e farlo con un linguaggio universale, che parla a tutti ma con densità, e cioè è capace di dosare i concetti con la forza non solo delle parole ma anche delle immagini, è qualcosa che a mio modesto parere mancava da un po’. Raccontare quali sono le paure dell’oggi e farlo senza nascondersi dietro il sole-cuore-amore che richiede il mercato attuale, ma tirando fuori dei testi che pur di qualità altissima hanno il pregio di parlare a tutti, è qualcosa che davvero mancava da un bel po’. Due anni fa mi restò in mente una lettera che Dario Brunori pubblicò sul suo facebook in risposta a un articolo di un critico musicale. Non ricordo quale fosse l’argomento ma rimasi colpito da come si definì lo stesso Brunori in quanto artista, e cioè una persona che ha il talento di raccontare storie semplici.

Beh, caro Dario, o allora eri un falso modesto, oppure io oggi voglio farmi di quello che ti fai te.

 

 

 

Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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