Una copertina blu con una figura in controluce che esce dall’acqua. Una tromba sospirata ed emozionata che suona poche lunghe note. Una voce che declama la propria voglia di libertà. Un disco new age? Ambient? Un Buddha-bar deluxe? No, siete sulla cattiva strada.
Free è il nuovo, nuovissimo, albumi dell’iguana del pop.
Ormai settantenne Iggy Pop non ha smesso di stupire. Se la trasgressione non è neanche
una caratteristica su cui si possa discutere per l’artista americano, sicuramente lo stupore,
la meraviglia sono categorie che descrivono al meglio il nuovo lavoro di Iggy Pop.
Per i più che magari conoscono due o tre album, ancora di più per chi conosce due
o tre sue canzoni, questo nuovo lavoro apparirà strano e di sicuro inaspettato. Ma tranquilli
anche chi conosce a menadito la produzione di Iggy Pop rimarrà stupito, secondo me in
maniera positiva.
La cosa che salta all’occhio prima di tutto sono i ritmi, in second’ordine i suoni.
La batteria travolgente e la chitarra punk a cui Iggy Pop ci ha sempre abituato questa volta
sono state messe in cantina, non in pensione, ma di sicuro a riposo.
Probabile come ha gridato la stampa di mezzo mondo che Iggy abbia deciso di prendersi
una pausa da se stesso, andando a cercare ad un’altra altezza le corde su cui far
rimbalzare la quantità di vita che riesce a mettere in ogni nota cantata e immaginata.
Dopo un’apertura effettivamente spiazzante come quella della traccia che dà il titolo
all’album, ci troviamo scaraventati in un altro brano fuori programma. Loves missing è una
ballata dal sapore freddo e malinconico di chi ricorda con sofferenza qualcosa o qualcuno.
La batteria è rilassata, le chitarre (ma anche un po’ le melodie) ricordano gli Interpool, la
tromba appena accennata ad una notte in un locale di New York. Somali è cupa e
asincronica, una specie di rivelazione con tanto di sofferenza annessa.
Alla quarta traccia, James Bond, si riconosce Iggy Pop per ironia e giro di basso ma anche
questa volta la puntata più ricca non è sulla velocità ma sulla corposità di un muro di
suono. Tutti gli strumenti sono distinguibili e giocano a rincorrersi per trovare un letto
morbido all’ironia di Iggy. Qui si capisce bene l’operazione che Iggy ha compiuto soprattutto con se stesso, tenere
alcune caratteristiche ma bagnarle in altre acque, meno vorticose ma forse più profonde.
A chiudere il pezzo un assolo di tromba davvero conforntante è salutare in mezzo a tanta
nebbia.
Arriva di seguito Dirty Sanchez pezzo confuso e caotico come spesso i pezzi di Iggy
sanno essere, ma anche qui a prevalere è un clima morbido e giocoso. Si viaggia lontano
con la quinta traccia, quasi nel campo dei Talking Heads.
Glow in The dark è lenta ruvida e stropicciata, più berlinese che newyorkese.
Siamo nel campo della verità cosmica invece con Page, pezzo che ha tutta l’aria di una
confessione. Stessa atmosfera si respira in We are The people, voce rauca e poche note
di tromba.
Do Not Go Gentle Into That Good Night e The Dawn chiudono un disco incupendo un po’
la faccenda ma sempre con tanta arte e tanta sofferenza. Difficile avvicinare Free ad un
disco di Iggy Pop ma forse proprio questo è quello che aveva in mente la vecchia iguana
guardando il mondo e pensando di schiantarcisi.