Luka Modric, come alcuni libri, ha avuto su di me l’effetto di spingermi ad una ricerca interiore, di storie, di pezzetti di me, che ogni tanto è giusto riscoprire per poter guardare avanti fiduciosi.
Luka Modric: da profugo a Pallone d’oro
Tra i fatti e fatterelli che coinvolgono l’infelicissima famiglia Karamazov, uno dei temi più interessanti che entra ed esce di più in tutto il romanzo è quello del dolore percepito in tenera età. Quando ad Aleksej un bambino teppista tira la barba, Dolstojevsky racconta che “quello che si è visto a nove anni non si dimenticherà mai più per tutta la vita”.
Mi viene in mente questa citazione ogni volta che vedo Luka Modric giocare a pallone, ogni volta che lo vedo spingere la propria squadra da metà campo con quelle sue gambette quasi rachitiche. Quella faccia triste, quelli occhi malinconici, quella bocca leggermente imbronciata di chi, semplicemente, non è allegro. Magari anche contento, ma non allegro.
E i motivi per essere imbronciato non mancano. La sua storia ormai la conosciamo tutti: bambino sotto le bombe in Croazia, costretto a fuggire e vivere come profugo, costretto ad assistere alla morte del nonno ucciso dai primi indipendentisti Serbi, bambino prodigio nell’albergo per rifugiati di Zara e poi da lì a campione in ascesa fino al Pallone d’oro di quest’anno, strappato dalle mani di Messi e Ronaldo vincitori alterni delle ultime dieci edizioni.
La guerra nell’ex Jugoslavia
Fin qui tutto è favola, fin qui è una favola. Ma la vita reale, a differenza delle storie di Walt Disney, non si ferma nel momento del successo, scorre quotidianamente anche dopo un traguardo di vita importante e ci regala sfumature di colori imprevisti ed emozionanti come un quadro che sveli piano piano, ad ogni sguardo, un nuovo significato.
Luka Modric, con la sua faccia triste e la sua storia di sofferenza e vittorie, ha riaperto il libro di storia contemporanea su una delle sue pagine più oscure e forse troppo in fretta dimenticate. Per chi come me aveva sedici anni, la Jugoslavia voleva dire le vacanze di molti operai, un mondo esotico, semplice ma ordinato. Un mondo terribilmente lontano.
Poi all’improvviso Sarajevo si è avvicinata a Milano, le bombe si sono sentite anche qui, era percepibile la paura che qualcosa stesse degenerando nell’opulenta società degli anni Ottanta.
Tutto questo seguito da un ovattato silenzio, per buona parte della guerra, dei mass-media internazionali e soprattutto americani. La stampa italiana però segue le vicende con particolare attenzione, vuoi la vicinanza geografica ai Balcani, vuoi un nascente movimento politico che inneggia alla secessione della Padania. Luca Rastello racconta al mondo il massacro di Srebrenica nel toccante libro La guerra in casa, un genocidio dimenticato ma che ebbe ben 8.000 vittime tutte musulmane e bosniache, sotto gli occhi dei Caschi Blu olandesi (N.B. Il processo non si è ancora concluso). Grazie ai nostri giornalisti, grazie alla vicinanza, quella guerra in quegli anni diventa un po’ anche nostra. In Italia se ne parlava e c’era molta solidarietà.
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Acquista La guerra in casa su AmazonLeggi la recensione de La guerra dei dieci anni
Acquista La guerra dei dieci anni su IBS
Acquista La guerra dei dieci anni su AmazonDel passato non ci si libera mai
Per questo per me è impossibile non piangere quando vedo Luka Modric andare a ritirare il Pallone d’oro, mentre dice che il più grande ringraziamento va a Boban, simbolo di libertà per tutta la sua generazione di giocatori croati. Quando la telecamera inquadra Boban, il suo volto è rotto dalle lacrime, loro due sono due sopravvissuti e tutti gli altri sembrano solo dei cartonati.
Come si può dimenticare Boban che difende i tifosi croati dai poliziotti arrivando a colpirne uno con un calcio? Sono immagini di un mondo che ci auguriamo lontano, ma che ci ricordano di quanta violenza siano capaci di produrre odiosi concetti come il nazionalismo e la supremazia religiosa.
Questo il passato, ora siamo in Russia e la Croazia ha una squadra che nessuno dà per favorita ma che tutti vogliono scrutare con attenzione.
Però il destino non te lo togli di dosso e lo sa Modric, lo sa bene. Mentre la Croazia batte tutti nelle prime partite del Mondiale russo, lui tiene un profilo basso, lo sa che loro non sono amati dal Presidente Putin e dal suo popolo e sa un sacco di altre cose.
La sfortuna cieca vuole che la stampa si accanisca non tanto su una squadra di ragazzi che cerca di dimenticare la brutalità della guerra, piuttosto vuole fare del team croato un simbolo del carattere “indipendentista” e “sovranista”. A compromettere le cose anche qualche scivolone, come quello di Vida che, da ex giocatore della Dinamo Kiev, grida “Forza Ucraina” rischiando davvero grosso in territorio sovietico. (La Fifa aprì un’inchiesta su Vida)
Tutti cercano di smorzare, però Modric e compagni lo sanno: del passato non ci si libera mai. La sfortuna di portarsi dietro un carattere “politico” è una cosa che non ci si lascia indietro quasi mai.
La malinconia croata
La Croazia di Modric ha una malinconia, una serietà e, diciamolo, anche un po’ di sfiga di fondo, che da nulla sembra possa essere cancellata.
Infatti ha ampiamente dimostrato di essere la squadra col più basso coefficiente di sorrisi distribuiti in campo: pensate a Mandžukić, Perisic, Vrsaljko, Rebić, vi potete fare un’idea di come su questa squadra-generazione di fenomeni aleggi un’aura di malinconia guardando i loro profili Instragram. Dove sboroni (lecitamente, per carità) portoghesi, italiani, senegalesi, francesi, piazzano macchine, orologi, donnoni, loro mettono foto di famiglia, messaggi sociali, foto di compagni. Sembra che per loro Apple abbia inventato un filtro dal nome Sobrietà o Serietà, col sottotitolo “stiamo pensando ad altro”.
L’assioma che sostiene tutta la mia teoria? Marcelo Brozović. Il centrocampista dell’Inter capovolge la questione mascherandola, e quindi disvelandola, col suo modo di festeggiare (epic Brozo): una mano che forza una faccia triste a fare un sorriso. Più chiaro di così: non c’è nulla da ridere, ma stiamo giocando e allora facciamo un sorriso.
Non si possono non amare questi ragazzi e non si può non amare il loro capitano che oltre tutte le prove che ha dovuto superare ha pure dovuto subire il supporto di Bargiggia.
Modric è un insegnamento importante per tutti nel guardarci dentro, cercando tra mille peripezie la forza di diventare ciò che vogliamo, facendo cristallizzare le lacrime in linfa vitale per raggiungere grandi risultati.
Resto qui e Isola
Sarà un caso, due miei coetanei quest’anno hanno pubblicato due libri che scavano nel passato, due storie di ricostruzione del proprio passato, ma anche di una storia più grande che passandoci addosso ha cambiato qualcosa dentro di noi per sempre.
Balzano (leggi l’intervista), italiano, con Resto Qui (leggi la recensione) e Siri Ranva Hjelm Jacobsen (leggi l’intervista), danese originaria delle Isole Fær Øer, con Isola (leggi la recensione).
Due libri in cui due protagoniste diverse, una che vive e racconta la sua storia, una che va alla ricerca della propria, ripercorrono i propri percorsi biografici cercando il loro carattere nel percorso che le ha portate ad essere qui e ora. In questa ricerca la storia si rilegge, si riscrive, ma comunque la si affronta.
Ascanio Celestini spiegava che la memoria serve “perché se non ti ricordi dove hai messo le chiavi col cavolo che entri a casa”, ecco io la penso allo stesso modo. Se non sai chi sei stato non farai mai un passo oltre al tuo ego.
Luka Modric, come i libri che ho citato da ultimo, ha avuto questo effetto su di me, spingermi in una ricerca interiore, di storie, di pezzetti di me, che ogni tanto è giusto riscoprire per poter guardare avanti fiduciosi e prepararsi a nuove meravigliose sfide.
Buon 2019 a tutti.
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