Diario di viaggio New York – Credo sia necessario premettere che chi scrive, per quanto si sforzi, è e resterà un provinciale. Fondamentalmente sono un fifone, faccio fatica a lasciarmi andare e, se catapultato in un posto che non conosco mi sento a mio agio come una zebra nella savana, isolata dal branco e con una grossa X dipinta sul chiappone.
Ribadisco questo concetto perché è importante ai fini di quel che troverete scritto dopo: di solito, io sono il tipo che pur trovandosi bene in un posto, tende ad affrontarlo sempre con quel serpeggiante senso di estraneità che lo obbliga a una costante attenzione. Sia chiaro, adoro viaggiare, questa cazzo di vita è troppo breve e spesso troppo piatta per sprecarla in un solo luogo, però, non mi vergogno ad ammettere che una componente che tanto amo del muovermi è quella che ti permette di riscoprire sotto una luce diversa quello che avevi lasciato prima di partire. Che sia un piatto di pasta dopo due settimane ai Caraibi o semplicemente il profumo delle lenzuola del tuo letto dopo 20 giorni zaino in spalla.
Con New York, tutto questo non è successo.
Curiosamente, in un paese dove il non sapere l’inglese è un limite enorme, mi sono sentito a casa in un attimo. Il perché di tutto questo credo abbia origini varie. Suppongo che alla base ci sia il risultato unico della commistione di tutte le facce di questa città, le belle e le meno belle, che la rendono un caleidoscopio di sensazioni in cui ognuno può trovare qualcosa che riconosce e che lo faccia sentire in un luogo familiare. Per quel che riguarda me, la prima cosa che ho percepito è che questo agglomerato gigantesco di 14 milioni di persone non ha mai cercato di prendermi in giro. Neppure nella sua crudeltà. Nella sua bellezza e nella sua bruttezza, New York ha una fascino onesto, per nulla premeditato, sembra essere nata e cresciuta così, in maniera spontanea: diversa da zona a zona, ma spinta da un’esigenza costante di praticità e funzionalità. È diversa, ad esempio, dalla bellezza delle città europee, senza dubbio più sfarzose, di certo più curate in senso assoluto. Sono né più né meno il risultato di secoli di storia e studio di urbanistica, di arte, di pensiero razionale. New York, al contrario, che di secoli sul groppone ne ha ben meno, è una spora cresciuta seguendo non delle esigenze “canoniche”, ma le esigenze del suo popolo, e il risultato è che ne è venuta fuori una città smisurata ma a misura d’uomo, anche per chi la affronta la prima volta. Sarà che non amo camminare col naso all’insù e la grandiosità dei grattacieli mi ha toccato fino a un certo punto, sarà che, come ho detto prima, sono provinciale in quanto italiano, ma parecchio cittadino in quanto milanese, io a New York mi sono sentito subito come fossi a casa mia. Solo (un bel po’) più grande.
Dicevo all’inizio che uno degli aspetti più sconvolgenti di New York è la contraddizione continua. E lo è non solo a livello urbanistico e architettonico, ma anche sociale. La tensione verso l’alto dei grattacieli, la perfezione curata di alcune zone residenziali, vive a stretto contatto con la parte più sfortunata della popolazione newyorkese. Qui tutto si mescola, le limou passano affianco a chi rovista nei bidoni della spazzatura, e chi ha le gambe per correre (metaforicamente parlando, ma anche no, vista la quantità di runners in giro per la città), sfreccia accanto a chi di benzina forse non ne ha più: tutto è dolorosamente a vista, a differenza di quel che succede in altre città occidentali. New York anche in questo non è ipocrita: esalta il successo e allo stesso tempo espone il fallimento. Non capisco se si tratta di una scelta motivazionale oppure, semplicemente, è così perché deve andare così, esattamente come per la storia degli indiani d’America. Leggendo in giro ho scoperto che il numero di senzatetto nella city ha superato le 60.000 unità, di cui l’80% sono famiglie. Un dato agghiacciante che la dice lunga sulla “selettività” americana (di questi 60.000, praticamente tutti riescono a essere accolti la notte in strutture di ricovero pubblico).
Ma veniamo alle persone: come tutti i provincialotti disabituati ai voli transoceanici, prima di partire non sapevo cosa aspettarmi da questo popolo. La mia idea era un po’ superficiale, come per tutti forgiata dalla quantità infinita di film hollywoodiani visti nel corso degli anni, e, come per alcuni, intrisa del giudizio negativo che nutro per la politica estera di questo paese. Così, per cercare di farmi trovare preparato e con meno preconcetti possibili, mi sono messo a fare i compiti e ho preso in mano alcuni titoli di scrittori americani contemporanei, alcuni per me nuovi, sperando di poterne cavare fuori una chiave di lettura soddisfacente.
Ho scoperto con enorme piacere DeLillo (che non conoscevo, QUI la recensione di Underworld), ho ripreso in mano Carver, maturando la convinzione che certi autori è meglio leggerli solo quando puoi capirli (cioè da adulto), ho continuato a trovare ostico Roth, mentre ho maturato un amore viscerale per David Foster Wallace (arrivare a 35 anni senza aver letto nulla di lui è forse la cosa peggiore che ho fatto in vita, peggiore di quella volta in cui sbagliai un gol a porta vuota contro una squadra che mi pare si chiamasse Cerchiatese e persino peggio di quella volta che, era il capodanno del 1996, cercai di imbucarmi in casa di amiche spogliandomi nudo in mezzo alla neve).
Inutile dire che avendo interagito ben poco con il “newyorkese tipo” causa la scarsa dimestichezza con l’inglese, tutto questo background letterario mi è servito a ben poco (però, Underworld, data la mole del volume, è stato un ottimo deterrente contro le blatte che passeggiavano silenti sulla moquette della nostra stanza…). ***
Tornando a bomba, io non so come vive realmente un abitante di New York, non posso certo averlo esperito con precisione scientifica guardando la gente passare dalla vetrina di uno Starbucks, oppure leggendo un libro, oppure ancora fidandomi di un film di Woody Allen, però, quel poco che ho potuto percepire, al netto dello stupore, devo ammettere che mi è piaciuto. Soprattutto, ho adorato il loro modo di camminare di fretta e il loro essere “isole” apparentemente funzionali in un mare che scorre impetuoso 24 ore su 24. Nel luogo che più al mondo ti bombarda di immagini, luci, pixel e, fondamentalmente, tante cazzate, il newyorkese lo riconosci perché sembra essere impermeabile anche alla sua stessa città, pur essendone completamente intriso. Perché se c’è una cosa che si sente a pelle della popolazione di questa città, è che è costantemente pervasa da una corrente vitale che gli consente di sapere sempre dove andare e qual è il suo posto nel mondo. Un bene in certi casi, una stortura in altri. Ma questa è l’America.
Parte 2 – I luoghi che mi sono piaciuti #1 (29/09)
Parte 3 – I luoghi che mi sono piaciuti #2 (06/10)
Parte 4 – I luoghi che mi sono piaciuti #3 (13/10)
Parte 5 – I luoghi che Non mi sono piaciuti (20/10)
Parte 6 – Sensazioni sconclusionate (27/10)
*** Vi chiederete: perché spendere un periodo a raccontare quello che hai letto se poi non è servito a una cippa? Semplice, un po’ è perché volevo menarmela millantando doti intellettuali che non ho, e un po’ perché volevo la scusa per linkarvi una nostra vecchia Campagna del Mese, incentrata sull’importanza della lettura.
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