Recensione Folfiri o Folfox, Afterhours – L’ultimo album della band milanese affronta il tema della morte disegnando un piccolo capolavoro di emozioni. Diciotto canzoni che si fanno percorso di rinascita e che sanciscono, tra le altre cose, un dato di fatto: a quattro anni da Padania e a diciannove da Hai paura del buio, gli After non accennano a perdere colpi.
La morte di una persona cara, o in ogni caso, un qualsiasi genere di abbandono, porta nella vita di chi resta (che sia su questa terra, o banalmente in una casa vuota) un cambiamento radicale. Fare i conti con ciò che non c’è più è una delle prove più dure perché, oltre all’inevitabile elaborazione della perdita, costringe alla riconsiderazione di molti degli aspetti della propria vita, spariglia le priorità e, soprattutto, obbliga a fare i conti con una vasta collezione di rimpianti, da quello per le parole non dette a quello per il troppo tempo sprecato.
Sulla paura della morte abbiamo costruito filosofie e (purtroppo) religioni, sul dolore emotivo che ne scaturisce abbiamo sviluppato decine di teorie scientifiche, eppure una sola cosa è drammaticamente certa: sia che venga percepito come un volere di dio, sia che venga classificato come un’alterazione chimica della regione tra amigdala e ippocampo, sopravvivere e reagire al dolore è terribilmente difficile.
Folfiri o Folfox, ultimo album degli Afterhours, parla esattamente di questo. Anzi, se vogliamo essere ancora più precisi, parla di quell’esatto momento in cui, in seguito a una perdita, barcolli in equilibrio precario tra il bisogno di ripiegarti su te stesso e l’istinto di vita, che ti spinge a guardarti dentro e ad andare avanti.
Il filo conduttore dell’album è un fatto personale, la morte del padre di Agnelli causata da un cancro al colon (da qui il titolo, folfiri e folfox sono due chemioterapici specifici). Un argomento tosto, insomma (almeno per un album rock), che i nuovi Afterhours affrontano cesellando un’ora e 3 minuti intensi, con pochissimi cali e tantissimi picchi, diciotto brani sapientemente miscelati tra “rock alla After”, ballad struggenti, intermezzi sperimentali e un paio di pezzi principalmente pop. Folfiri o Folfox è un disco che si avvale non solo di un’architettura sonora imponente (con tutte le accezioni positive e negative che questo aggettivo si porta dietro) ma anche di una voce ben dosata e dii testi dai contenuti efficaci e densi. Un caos coerente, che cresce di intensità e chiarezza all’aumentare degli ascolti.
Proprio le parole sono ciò che più mi ha colpito di questo lavoro. I testi di Manuel Agnelli -che qui abbandona il cut-off per proporci delle costruzioni più complesse- senza essere verbosi arrivano dritti dove devono, collocandosi esattamente a metà strada tra il registro rock e quello, passatemi il termine, cantautoriale. Se è vero come dice Wittgenstein che l’alleviaménto del dolore passa unicamente attraverso il linguaggio, unico strumento in grado di conferirgli del senso, allora il caro Manuel, in Folfiri o Folfox ha condensato in poco meno di venti tracce un bel paio d’anni di analisi.
Con il dolore come tema portante, il rischio di bollare quest’album come una manata sulle palle è grande, eppure, credetemi, di cupo, in queste canzoni c’è davvero poco. La morte è presente, è vero, i riferimenti biografici alla malattia di Agnelli senior sono tanti e sono dei colpi allo stomaco di rara ruvidità, ma la tensione che scorre lungo queste tracce non è mortifera, anzi. È la celebrazione di una nuova consapevolezza (in un’intervista è stata definita “rinascita”) che per essere tale deve passare attraverso il dolore. La sofferenza, infatti, come canta Agnelli in Se fossi il giudice, va vissuta fino in fondo per consentirci di trovare un qualche senso, per scoprire veramente noi stessi e sentirci liberi.
E insomma, per chiudere, io questo Folfiri o Folfox ve lo consiglio. Ascoltatelo perché, pur nella sua diversità rispetto al resto della loro produzione, conferma che la band milanese è ancora capace di spaccare i culi. Ma, soprattutto, ascoltatelo perché quando arriverete all’ultima traccia, vi sentirete sollevati come alla fine di un temporale, quando il sole torna a splendere, l’aria è pungente e la pioggia appena caduta evapora profumo di foglie e terra. O almeno, io la rinascita la vedo così.