Ci sono film che rimangono impressi nella memoria per una scena. Alle volte si tratta di dialoghi memorabili alla tarantiniana maniera, altre sono frasi che diventano cult nella storia del cinema e ad appannaggio dei posteri sulla scia di “Via col vento”; in altre ancora è l’azione rocambolesca o l’utilizzo raffinato della macchina da presa a fare storia (è recente “La la land” ma chi l’ha visto non può non avervi parlato della sequenza danzata in apertura)…
… Probabilmente non è una scena così memorabile, ma è il suo equilibrio e l’importanza di questa sequenza ai fini della storia e del percorso del protagonista che mi hanno colpito nella visione de “Le vite degli altri”. Difficilmente riuscirò a raccontarvi il film e questa scena senza spoilerare un po’ la storia, quindi occhio: siete avvisati!
Le vite degli altri (premio Oscar come miglior film straniero nel 2007) racconta di un agente della Stasi, la temuta organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania dell’Est dal secondo dopoguerra alla caduta del muro di Berlino, e del suo incontro con un drammaturgo suo contemporaneo, accusato di essere un dissidente. Un incontro mancato, in quanto i due non si conosceranno mai nel corso del film – nonostante fino all’ultimo noi spettatori speriamo che accada – ma un non-incontro che porta un cambiamento radicale e inequivocabile nelle vite di entrambi. Da un lato Gerd Wiesler, il fidato agente della Stasi che sembra non provare alcuna emozione, un vero mago degli interrogatori a sangue freddo; dall’altro l’affascinante scrittore teatrale e intellettuale Georg Dreyman, che vive una relazione passionale e appassionata con la compagna e attrice dei suoi testi, Christa-Maria, e con la cultura di cui riesce a circondarsi. Il contesto sociale e storico in cui vive, infatti, non è decisamente dei più floridi: è vietato dalla legge possedere materiale (libri, riviste) di stampo occidentale e l’occhio del “Grande Fratello” del regime si fa sentire in ogni occasione possibile.
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Ma il culmine di questo “disgelo” si ha proprio nella scena di cui vi parlavo. Siamo a circa ¾ di film. Speriamo e vogliamo credere che il protagonista sia davvero sulla via del cambiamento, ma in quel fotogramma l’agente della Stasi è nell’ufficio del suo capo, in mano il rapporto che attesta inequivocabilmente l’attività di dissidente del drammaturgo Dreyman e che lo porterebbe ad una sicura incarcerazione.
Eppure. Qualcosa gli fa cambiare idea…
Intanto com’è costruita la scena, anche solo nella sua scenografia. L’agente della Stasi non fronteggia il suo superiore occhi negli occhi, ma si trova laterale, sottoposto e sottomesso al suo capo, ma privato persino del diritto di guardarlo negli occhi e costretto ad una postura innaturale. Le mani lungo il corpo, l’immobilità della seduta. Il colonnello, al contrario, fuma un sigaro, si pavoneggia nel suo ruolo e nel suo potere.
A far cambiare idea al nostro protagonista sono proprio le parole del suo superiore, il tenente colonnello Grubitz. Grubitz gli sta raccontando, tronfio e compiaciuto, di un nuovo metodo punitivo ideato proprio per gli artisti che sabotano l’ideologia politica. Uno di questi sembra anche piuttosto semplice, nella sua crudeltà. Si tratta di rinchiudere il detenuto, per un tempo indefinito, in una cella di isolamento, senza alcun contatto con il mondo esterno, né con le guardie né tantomeno con i compagni di prigione. Così facendo l’artista viene privato di qualsiasi appiglio, qualsiasi ricordo o episodio di cui potrebbe scrivere una volta uscito da lì. Scrivere, dipingere o comporre musica, insomma “quelle cose lì che fanno gli artisti” dice compiaciuto il colonnello lisciandosi i baffi. “E la cosa incredibile è che lo fanno da soli, senza alcuna costrizione”. Una punizione inimmaginabile nella sua crudeltà, che porta non solo l’artista a perdere il suo ruolo, quello per cui è nato, la sua vocazione e ispirazione, ma conduce persino l’uomo che respira dentro l’artista a perdere la sua umanità e vitalità (realtà riscontrata anche nell’aumento spropositato del numero di suicidi nel periodo di governo della DDR).
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Il percorso dei due protagonisti che vediamo dipanarsi nel film porta l’artista all’affermazione del suo ruolo e della possibilità di esercitarlo liberamente (anche se, per farlo, dovrà aspettare la fine del regime, ovvero il crollo del muro di Berlino) e porta la spia alla scoperta della sua umanità. Il percorso non è banale o scontato, né avviene in modo prevedibile o troppo repentino. L’evoluzione del protagonista è disseminata e raccontata da piccoli gesti e dettagli all’apparenza insignificanti, attraverso colpi di scena e un ritmo coinvolgente e carico di tensione, con il tipico andamento sinusoidale che caldeggiano i teorici del cinema per rendere un film interessante. E forse è anche questo a rendere il lungometraggio particolarmente avvincente, oltre al fatto che il cambiamento è verosimile e credibile ed è facile empatizzare con il protagonista. Ed è impossibile alla fine non commuoversi di fronte alla dedica che Dreyman fa del libro “Sonata per le persone buone”, che riesce finalmente a pubblicare, all’agente HGW XX/7, persona tanto importante nella vita dello scrittore eppure rimasto senza nome.
Valutazioni emotive
Felicità 92%
Tristezza 15%
Profondità 91%
Appagamento 93%
Indice metatemporale 95%
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