Due giorni, una notte, uno schiaffo per risvegliarsi

Due giorni, una notte di Jean-Pierre e Luc Dardenne con Marion Cottilard, un film attuale e potente, un cinema immerso nella realtà, una storia che strazia senza effetti speciali. Ma, visti i registi, chi si sorprende?

Lunedì 24 novembre sera al cinema per vedere l’ultimo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, Due giorni, una notte. Quello dei registi belgi è un cinema non banale, diverso dai canoni hollywoodiani, giusto per tenere lontani quelli che poi mi direbbero che si sono annoiati. Ma davvero vale la pena tenersi lontano da questo splendido film? Io credo di no. A partire dall’attualità dei temi trattati: la perdita del lavoro, la lotta per riconquistarlo, la guerra tra poveri aizzata dai padroni. Sandra è un’operaia che esce da un periodo di depressione, è guarita e vorrebbe tornare al suo vecchio lavoro, ma i colleghi vengono messi dai piani alti di fronte ad una scelta: o reintegrarla o ricevere un bonus di 1.000 euro. Va da sé che i 1.000 euro sono una cifra molto utile per quegli operai, che si sono guadagnata nel periodo di assenza della protagonista. Dopo una prima votazione a favore del bonus per 14 a 16, Sandra ne ottiene una seconda ed ha il fine settimana per convincere i colleghi a votare per lei. Così il film racconta dei due giorni in cui Sandra va di porta in porta a parlare con chi dovrà decidere della sua sorte.
Un tema etico davvero importante, difficile e attuale, trattato dai registi senza drammatizzazioni, ci mostrano il mondo reale nella sua nudità e senza fronzoli. Il peregrinare di Sandra è faticoso, sostenuto da un marito attento ma deciso, con la depressione sempre dietro l’angolo. Dove sta la dignità di un essere umano costretto a mendicare il proprio posto di lavoro cercando di levare di tasca i soldi a dei poveracci? Sta nella battaglia di giustizia e umanità che porta avanti, negli incontri faccia a faccia con ognuno dei votanti, nella lotta per riottenere ciò che le spetta. Il confronto con i colleghi è serrato, troverà appoggi che le daranno la forza di proseguire e rifiuti che la abbatteranno. Sono questi i veri Hunger games.
Tutto girato con uno stile sobrio, asciutto come è la vita, delicato come i sentimenti di ognuna delle persone in gioco, senza nessun sensazionalismo. Perché i problemi dei personaggi in ballo sono realistici, i dubbi da un certo punto di vista comprensibili, la solidarietà da conquistare. Non ci sono prediche, non è un trattato camuffato, è vita.
Una bravissima Marion Cottilard, lontana da trucco a parrucco delle grandi produzioni, dà vita ad una donna problematica, piena di dubbi e insicurezze. Tra parentesi rimane bellissima anche così, anzi forse di più.
Non vi dico come andrà la votazione finale, ma il film si conclude con la telefonata di Sandra al marito in cui gli dice “Ci siamo battuti bene. Sono felice”. Ecco dove ritrova la propria dignità Sandra, nella battaglia che ha portato avanti con il compagno, nell’essersi tirata su e aver combattuto, nell’aver lottato per il proprio lavoro, nel non essersi piegata alle decisioni altrui senza resistenza. La telecamera, che l’ha braccata per tutto il film come un animale in fuga, ora può lasciarla andare: non è più un essere impaurito e sperduto per il mondo, è una donna che sa qual è il suo posto.
Questo film è un potente e salutare pugno nello stomaco, uno schiaffo in faccia per farci risvegliare.

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Su Giuseppe Ponissa

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

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