“Al Tourist Trophy se cadi, muori. Eppure il suo fascino è irresistibile.” Credo che questa frase di Giacomo Agostini, che al TT ci ha corso e ci ha vinto (e lo ha profondamente osteggiato), sia la più lucida definizione di questa gara, così lontana dalle competizioni motociclistiche attuali, eppure così simile, per significato, a quella cosa che il TT sembra avere in odio più di tutto: la vita.
Una semplice pacca sulla spalla. Questo è il segnale dell’inizio, il momento in cui il pilota molla la frizione e parte per il suo personale toboga sullo Snaefell Mountain Course, 60,7 km di lunghezza da ripetersi più volte a seconda della categoria: oltre 200 curve che si dipanano tra le strade dell’isola di Man, sfiorando muretti, pali della luce, case e strapiombi in un costante “paso doble” con quella che, nella migliore delle ipotesi in caso di errore, potrebbe essere la fine di tutto. Questo è il Tourist Trophy, una gara su strada nata nel 1907 e che da allora ha affascinato e fatto discutere generazioni di appassionati. Si è presa centinaia di vite (tra piloti, pubblico e marshal) e nonostante ciò sopravvive, incurante delle critiche, fiera del suo anacronismo e della sua dura onestà. Perché il TT sa di non essere un “controsenso” (e per certi versi neanche una semplice gara di moto) ma semplicemente l’espressione più razionale della follia. O, se volete, l’espressione più folle di una cosa che consideriamo normale, come lo scorrere naturale della vita.
Non è facile raccogliere i pensieri se sei fresco di ritorno da quell’isola e, per la prima volta, hai potuto toccare con mano quello che questa gara rappresenta. Uno sguardo dal vivo, ripulito dalle critiche di chi lo osteggia e dall’immagine leggendaria che ce ne danno i DVD. Il Tourist Trophy, infatti, non lo conosci solo attraverso i salti meravigliosi di Mc Guinness al Ballaugh Bridge o ammirando le staccate di Bruce Anstey alla curva del Creg-Ny-Baa, e non puoi soprattutto pensare di conoscerlo leggendo gli articoli feroci che esplodono come supernove di inchiostro e carta ogni qualvolta un pilota ci lascia le penne. No. Il senso del TT lo puoi percepire solo nella maniera più assurda possibile (almeno su quelle strade), ossia camminando a piedi per il tracciato, toccando le protezioni disseminate lungo le curve, saggiando col piede i cordoli bianchi e neri (smussati ma pur sempre di pietra dura), osservando la tenera inutilità dei materassi messi dagli abitanti dell’isola e che avvolgono i pali della luce a bordo strada (a 200 km/h il palo della luce lo puoi ricoprire anche di marshmallow, ma non cambia l’esito dell’impatto). Chi corre il TT, infatti, vince anche se non arriva primo, vince anche se non arriva, in realtà. Il solo motivo di essere lì e giocarsi tutto per qualcosa di intangibile come la passione, è già una vittoria. Non ci sono milioni di euro in ballo, non c’è il sogno di una vita agiata alla fine del Gran Premio. Chi corre qui, se vince, si porta a casa la coppa con l’effigie del Mercurio Alato, se perde, invece, coltiverà la speranza di poter correre ancora il prossimo anno. Tutti però, vinti e vincitori, ottengono qualcosa di molto più importante, ossia l’amore della gente, l’affetto incondizionato di chi sta guardando un eroe.
Ora, quello che c’è scritto qui sopra ha preso forma nel volo Isola di Man–Birmingham, prima tappa di un odisseico viaggio verso casa dopo 4 giorni passati sull’isola, ovviamente per lavoro. Arai, il marchio di caschi più famoso al mondo, ha invitato la testata per cui collaboro a provare il loro casco top di gamma sulle strade dell’isola, qualche giorno prima l’inizio del TT. Confesso che quando mi hanno proposto la trasferta, la felicità di poter finalmente visitare un luogo leggendario, si è mischiata inevitabilmente alla paura di solcare quelle strade, così diverse da qualsiasi altra che conosco. A spaventarmi, più di tutto, era il tanto abusato concetto di “limite”. Guido Meda, ormai da anni, ci urla nelle orecchie che il limite per i piloti è un concetto fluttuante, che il limite va superato, che con lui si danza e, spesso, il campione è proprio quello che sa spingersi oltre le proprie possibilità. Beh, se ciò è vero in circuito, qui sullo Snaefell Mountain Course, il limite è tutto tranne una linea da cavalcare. Qui, questo termine trova il suo senso etimologico più vero: il “limite” sull’Isola è un limite. Oltre a esso non c’è la via di fuga, o una scivolata, o un un dritto sulla ghiaia. Il limite è un muro (un muro vero!) che non puoi oltrepassare. Ed è questo, nella sua crudeltà, a rendere il TT qualcosa di immensamente affascinante. Per riuscire a essere veloci tra quelle curve, infatti, non bisogna sapere quando “darci del gas”, è necessario sapere quando bisogna “toglierlo”. Sembra folle, l’ennesimo controsenso, ma a pensarci bene non lo è. Lucida follia, un continuo gioco a levare, indispensabile per provare a toccare quel limite. Una partita coerente, senza inganni, come appunto dovrebbe essere la vita.
Fotografie sparse qui e là.
– Prima di darci la possibilità di testare il casco sul Mountain, l’organizzazione Arai ha pensato potesse essere interessante fare una visita alla Joey Dunlop Foundation, una grossa casa perfettamente attrezzata per ospitare tra gli altri, piloti che hanno subito traumi gravi durante la gara. Costata oltre un milione di sterline, la fondazione viene sovvenzionata attraverso donazioni e ovviamente l’affitto delle stanze. C’è tutto, letti comandabili elettricamente, rampe d’accesso, bagni studiati per essere utilizzati in perfetta autonomia e poi il piatto forte: una terrazza che si affaccia sulla curva a destra che porta al Braddan Bridge, dove i piloti arrivano dopo essersi sparati la discesona di Bray Hill. Giusto per ricordarci sempre quale è il limite.
– La parte del Mountain, la più bella di tutto il tracciato, durante il periodo di gara diventa una sorta di pista aperta anche ai comuni mortali. In pratica, solo in quel punto, viene tolto il doppio senso di circolazione e vengono eliminati i limiti di velocità. Ennesimo controsenso? Forse. A levarmi ogni dubbio è stato l’incontro che ho fatto appena partito per il mio giro sul Mountain: dopo aver percorso i primi metri, infatti, appostato all’uscita di una curva c’era un poliziotto che appena mi ha visto mi ha salutato e mi ha urlato “Goooo!”
– Girovagando per il paddock, si incontrano le umanità più disparate. La cosa più bella però sono le famiglie: madri, padri e figli stipati in una tenda a lavorare sul loro mezzo, banchi di lavoro improvvisati, una piastra elettrica sempre accesa e l’immancabile compilation di birrette vicino. Stupenda, tra tutte, l’immagine di una signora attempata che, incurante di essere vestita di tutto punto, con la capillera in piega e tanto oro addosso, affondava le mani nel motore del sidecar del marito, anche lei alla ricerca di quel CV in più che può fare la differenza.
– Nelle corse su strada e al TT in particolare, il binomio moto-pilota è ancora tanto sbilanciato verso il secondo. Il coraggio e il manico del pilota sono più determinanti di un’elettronica bene a punto, perché qui, oltre alla velocità, entrano in ballo numerosi fattori, alcuni di essi imponderabili. Per tenere fede a questa regola, i piloti del TT hanno recentemente sottoscritto una petizione per abolire una norma introdotta qualche anno fa e che vuole, per aumentare la sicurezza, che le gare vengano interrotte in caso di pioggia. Loro spiegano: se corsa deve essere, che corsa sia, in qualsiasi condizione. Controsenso anche questo?