In questi giorni, sulle strade di L’Avana si festeggia. Si aprono bottiglie di rum e si strappa hierba buena per celebrare una telefonata (quella tra Obama e Raul Castro) che in un futuro neanche troppo lontano potrebbe segnare la fine di un isolamento durato più di 50 anni
La cattività 50ennale di Cuba sembra stia per finire. Le parole di Obama che annunciano il disgelo e l’avvio di attività diplomatiche con il governo cubano hanno infuso la speranza nei cuori di molti cubani e demolito il sogno malconcio della Revolución (a onor del vero lo ha demolito più a quelli che stanno fuori che ai cubani veri e propri). Niente è sicuro, per carità, ci vorranno mesi, forse anni (anche perché l’eventuale allentamento dell’embargo spetta al Congresso Usa, a maggioranza repubblicana). Ciò non toglie però che il primo passo è stato fatto e ora, a ragione, questo popolo meraviglioso potrà ambire a un futuro se non migliore, diverso.
Io a Cuba ci sono stato due anni fa, sono stato quindi uno degli ultimi a respirare quello che forse non vedremo più. Ho sperato che qualcosa cambiasse, l’ho sperato con tutto il cuore. Ora, però, lo ammetto, sono spaventato. L’apertura diplomatica del Presidente degli Stati Uniti, sebbene attesa con gioia, apre a un bivio pericolosissimo, il mondo là fuori è bastardo e il rischio che la libertà porti con sé le storture che già vediamo in altri paesi caraibici è altissimo.
La notizia di questo cambiamento epocale mi ha fatto venire in mente un pezzo che scrissi al mio ritorno da Cuba. Adesso, rileggendolo, oltre ai profumi caldi e i colori accesi mi ritorna netto il disorientamento che ha suscitato dentro di me quel lembo di terra. Un disorientamento figlio delle contraddizioni e di un qualcosa che nel bene e nel male è stato unico e irripetibile. I cubani che ho incontrato mi hanno fatto un dono prezioso, mi hanno fatto capire coi fatti che per essere felici, bisogna saper gioire per quel poco che si ha e non soffrire per quel poco che ci manca. E in questi giorni di festa, non posso che sperare che il sapore della loro nuova libertà non glielo faccia mai dimenticare.
Qui sotto quello che per me ha rappresentato Cuba. Sotto ancora, la gallery. Se saltate lo spataffione per tuffarvi nelle foto, mica mi offendo eh.
Sto ancora cercando di smaltire il fuso orario e intanto provo a mettere ordine nei miei pensieri. Il mio viaggio a Cuba non è stato facile, c’è qualcosa di così contraddittorio in quella terra che, alla fine, i sentimenti che suscita non sono mai unilaterali. Magari a malincuore ma non puoi fare di più che amarla tristemente o, se si preferisce, odiarla con dolcezza. Colpa della Revolución o colpa degli Usa e del capitalismo è difficile dirlo, io per lo meno non so mica se l’ho capito davvero. I simboli di cui è disseminata l’isola, la propaganda onnipresente che permea ogni cosa e la gente che, sarà stata una mia impressione, sembra far fatica a dire quello che pensa, di certo non hanno aiutato. Io da parte mia, prima di partire ho provato a documentarmi, mi sono rinfrescato la memoria riprendendo concetti come il 26 luglio e alcune altre date fondamentali del 50ennio castrista. Poi, per compensare la mia inevitabile partigianeria sul tema, mi sono divorato il blog della dissidente Yoani Sanchez per cercare di capire cosa è, realmente, la Cuba di oggi.
E non mi vergogno ad ammettere che tutti i miei sforzi prepartenza non sono serviti a un cazzo.
Appena scendi dall’aereo, infatti, la teoria va a farsi e benedire e si entra in un rumba schizofrenica in cui è davvero difficile raccapezzarsi. Passa un momento e benedici il socialismo, Fidèl e la libreta de racionamiento, il momento dopo (giusto 10 minuti, il tempo di percorrere la San Lazàro, via lunghissima e struggente che unisce l’Università al Malecon) ti chiedi se davvero questa è la soluzione in cui credere, oppure si tratta di un modo come un altro, magari non violento (forse, chissà) per tenere in scacco un intero paese.
L’Avana, poi, di tutta questa ambivalenza, ne è la sintesi esatta: sporca e affascinante, decrepita eppure viva. Pesante, umida e appiccicosa, ma capace anche di calore, sorrisi e leggerezza.
Di certo non è bella, quello no. Almeno non lo è nel senso europeo del termine. Parigi è bella, Venezia è bella, la nobiltà decadente di una qualsiasi città dell’Est è bella. L’Avana è un’altra cosa. L’Avana al massimo è una vecchia puttana vestita a festa che, nonostante l’età, le rughe e le tette cascanti, è ancora capace di sedurti e magari portarti a letto. E ci stai anche bene con lei, perché ci sa fare, ma alla fine, i trucchi e il viso pittato di mille colori, non possono nascondere del tutto la realtà delle cose. Lei ci prova a confonderti con le sue mille prospettive, la sua musica e i suoi profumi ma alla fine, le contraddizioni e le sue tante ferite – che poi sono quelle di un intero popolo, accumulate in 50 anni passati sospesi nel tempo, fuori dalla storia – presto o tardi le vedi tutte. Sì, certo, si può sorridere nell’ammirare le vecchie Chevy luccicanti piene di turisti bianchi e ciccioni, si può bere mojito al Nacional, ci si può perdere nei viottoli brulicanti della città vecchia o anche, se vi piace il genere, rimanere incantati davanti alla magnificenza dei monumenti dedicati a Josè Marti o ai barbudos del 59.
Però poi, tra le pieghe di tutto questo, è inevitabile, non puoi non vedere intere famiglie stipate in case ridotte a macerie, che del tanto decantato stile coloniale hanno solo la facciata, i vestiti lisi dei ragazzini, la gente silenziosa e ordinata in file interminabili davanti ai negozi. Io ci ho provato a guardare e l’aria umida di Cuba mi è rimasta addosso, mi ha inzuppato i vestiti e mi ha affascinato. Poi però, quando credevo di averla compresa mi è entrata nei polmoni troppo velocemente e mi ha fatto una gran paura. La sua gente a volte l’ho odiata e a volte mi ha riempito il cuore, ho ammirato il loro ottimismo (che è diverso dall’essere felici) e la loro capacità di spiegarti con gli occhi ciò che dovrebbe essere ovvio e che per noi ovvio non è più (è meglio gioire per quel poco che si ha, o soffrire per quel poco che ci manca?). È stato un viaggio che mi ha arricchito sotto parecchi punti di vista, ma che, dall’altro lato, mi ha anche tolto parecchio (gli ideali, ad esempio, già a puttane da un bel po’, in quelle strade non possono che essere messi a dura prova). Ci tornerò? Non lo so. Mi è piaciuta? Non lo so. Ne è valsa la pena? Assolutamente sì.
PS: nella foto di apertura l’hotel Habana Hilton. Nel 1959 la struttura venne utilizzata per tre mesi da Castro come quartiere generale dopo il suo ingresso trionfale a L’Avana. Poi, venne ribattezzato Habana Libre.
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