Nel mio giardino il mondo di Irene Penazzi ci si ritrova nella quotidianità di un fare tipicamente bambino: curioso, indaffarato, determinato, riflessivo, proiettato verso un tempo lento, che lascia spazio alla meraviglia, ma che si perpetua inflessibile nell’alternarsi tra il giorno e la notte, tra le stagioni.
Nel mio giardino il mondo di Irene Penazzi
«[…] la vita nell’isola, è molto tranquilla. Le Fate si alzano la mattina mezz’ora più tardi, le belve si occupano dei loro piccoli, i Pellirosse mangiano a quattro palmenti per sei giorni e sei notti di seguito, e quando i Pirati e i Bambini Smarriti si incontrarono, si limitano a mordersi il pollice in segno di disprezzo. Ma con l’arrivo di Peter, che odia l’ozio, tutti riprendono le loro attività; se appoggiaste l’orecchio al suolo sentireste tutta l’isola ribollire di vita»[1].
Sono i risguardi, illustrati con una mescolanza di alberi, accompagnati dal loro nome in latino, a condurci nel silent book dell’illustratrice Irene Penazzi, Nel mio giardino il mondo, pubblicato in Italia nel 2018 dalla casa editrice Terre di Mezzo: con l’arrivo di tre bambini e del loro gatto, se poggiaste l’orecchio alla pagina sentireste tutto il giardino brulicare di vita. Non mancano una sedia (che è anche un po’ poltrona), una palla rossa (che rimbalzerà di giro pagina in giro pagina) e un rastrello (esule tra l’erba e uno sfondo bianco).
Eppure non sembra, ma solo per la durata di un giro pagina, quando lo spazio si gonfia di oggetti, apparentemente smarriti, e di intenzioni, evidentemente chiare.
Un campo base in costruzione, un’Isolachenoncè, un quaggiù che pare “il quassù, sulla magnolia” di Cosimo Piovasco di Rondò, un disegno che sta prendendo forma.
L’occhio del lettore non può che perdersi in tutta quella frenesia di cose e ritrovarsi nella quotidianità di un fare tipicamente bambino: curioso, indaffarato, determinato, riflessivo, proiettato verso un tempo lento, che lascia spazio alla meraviglia, ma che si perpetua inflessibile nell’alternarsi tra il giorno e la notte, tra le stagioni.
L’invito a cogliere con lo sguardo e a studiare ora un particolare, ora un altro, è costante, come anche la sensazione di sentirsi sulla soglia di un mondo che per troppo tempo abbiamo goduto di sfuggita, perché siamo adulti e pensiamo che giocare non ci piaccia più.
Il tratto semplice, ma profondo, dell’illustratrice, ci accompagna nell’intimità di un giardino di famiglia, cittadella di tranquille avventure fraterne.
Mangiarsi un fico appena colto, abbuffarsi di ciliegie, prendersi cura di galline, uccelli, conigli, porcellini d’India, tartarughe, leggere arrampicati su qualche ramo, cucinarsi delle lumache allo spiedo, indossare corone di foglie, far spazio alla notte e alle lucciole, come all’autunno e poi all’inverno; così ci si relaziona al mondo naturale, lasciandolo scivolare in noi e nella nostra progettualità immaginativa ed esplorativa.
Le doppie pagine diventano così spazi vissuti, occasioni di scoperta, spunti operativi, lenti d’ingrandimento sulle multiple possibilità offerte da un giardino interrogato dal gioco bambino. Il mondo è lì.
L’ultima tavola inverte la prospettiva, lasciando alle spalle del lettore quel giardino entro cui, fino a poco prima, era sprofondato: affacciati alla finestra osserviamo i tre fratelli che in rispettosa attesa seguono la perpetua metamorfosi del loro bosco domestico.
Piuttosto, la palla rossa che fine ha fatto?
Spunti didattici:
Già il titolo sprigiona tutta la potenza educativa di questo silent book. L’importanza di quella che viene definita “outdoor education” è da tempo oggetto di sperimentazioni in ambito didattico e questo libro può inserirsi a pieno titolo all’interno di un percorso esplorativo degli spazi naturali dentro e fuori la scuola, dall’infanzia alla secondaria di primo grado.
L’opportunità di vivere un’avventura fisica all’aperto, connessa alla possibilità di godere di libertà d’immaginazione sufficiente per poter attribuire un significato culturale alle esperienze è ciò che, per Wilenski (2014) può permettere di riconnettere i bambini con la natura. Per questo è necessario un approccio all’esplorazione all’aperto in cui gli adulti per primi siano in grado di accogliere gli aspetti meno noti e probabilmente disorientanti dei luoghi naturali, accettando lo smarrimento iniziale e resistendo alla tentazione di offrire attività quando i bambini mostrano di non sapere cosa fare o quando non appaiono immediatamente in sintonia con il contesto: in questo territorio senza mappe a guidarci e in cui ci si perde un po’ possono manifestarsi le potenzialità educative del disorientamento che viene da un autentico esplorare.[2]
Le figure educanti devono quindi accompagnare e farsi accompagnare dall’attitudine esplorativa dei bambini, senza interferire, almeno inizialmente, e Irene Penazzi con le sue tavole ripercorre questo “giusto atteggiamento” lasciando al lettore il ruolo di spettatore. La progettualità viene a delinearsi solo in seguito e l’esplorazione inizia così a definirsi come vera e propria esperienza educativa.
Lo consigliamo a… chi il giardino lo frequenta solo se è alla francese, a chi si è scordato la bellezza del giocare all’aperto, a chi mangia le escargot a là Bourguignonne e non conosce la variante allo spiedo, a chi ha dei fratelli a cui fare da babysitter e non sa cosa fargli fare e a chi è pigro e non ha voglia di uscire di casa.
[1] J. M. Barrie, Peter Pan, Milano, Salani, 2011.
[2] M. Guerra, Le più piccole cose. L’esplorazione come esperienza educativa, Milano, FrancoAngeli, 2019.
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