Avevo un conto in sospeso con Andrew Bird dal novembre 2012, quando la data milanese ai Magazzini Generali mi aveva lasciato l’amaro in bocca, complici un’acustica piuttosto imbarazzante, la calca e gli orari serratissimi per dare spazio all’after concert danzereccio. Così, appena annunciato il tour di “Are you serious” con tappa meneghina al Teatro Dal Verme, location dei migliori venerdì sera musicali della mia vita, ho scelto subito di dargli un’altra possibilità e mi sono accaparrata un biglietto per la prima fila.
In apertura la giovanissima Birthh: il suo primo concerto in un teatro e anche il primo in solitaria dopo due anni di tour con il supporto della band, come ammette lei stessa con la sua aria timida ma decisa. Chitarra, voce e sentimenti, nessuna imperfezione. La sala non è ancora pienissima, ma decisamente entusiasta. La ragazza conferma quello che ha dimostrato quest’estate fra un festival e l’altro: il talento c’è e speriamo si evolva senza restare incastrato nel cliché del pop emotivo. Brava.
Si spengono le luci e improvvisamente il teatro si affolla, chi era seduto nelle ultime file precipita giù per vedere lui da vicino. Andrew Bird entra quasi subito. Giacchetta brillantinata, look spettinato + barba incolta d’ordinanza e un’unica maledetta pecca: un improbabile mocassino dall’aria nuova e gommosa.
Conquista il centro del palco da solo e attacca con un’intro strumentale che si traduce in “Capsized”, ricalcando l’incipit del disco ma arricchendolo con evoluzioni di violino e loop. Già ci piace.
La scaletta non è scontata, tanto che si rifugia immediatamente nel passato con “Tenousness” (da “Noble Beast”, 2009). Seguono alcuni pezzi dell’ultima fatica, fra cui la title track “Are you serious” recitata come fosse davvero una pièce teatrale.
Una meraviglia di smorfie, gesti e movimenti pelvici in cui anche le false partenze e le imperfezioni (sulle quali Bird non transige: stop e si ricomincia) sono eleganti come una danza premeditata. Pure quando per alternare gli strumenti appoggia il violino e sbatte la chitarra contro la sedia.
Su “Truth lies low” lo confessa: “è dura fare tutto da solo”. Ma vederlo districarsi nervoso e perfezionista fra i pedali, il violino pizzicato come un mandolino, la chitarra e i fischiettii, è un incanto. Il pubblico infatti è rapito e discreto, si concede solo per gli applausi, meritatissimi e fragorosi, fra un pezzo e l’altro.
Dopo “Roma fade” esce dal guscio protettivo della strumentazione che lo circonda, “dimentica la tecnologia per un momento” (cit.) e si sposta più in là col solo violino per una serie di pezzi e chiacchiere. Strappa qualche risata raccontando del pezzo scritto per “Django Unchained” di Tarantino che poi ha deciso di tenere per sé, dove racconta della sua esperienza extra-corporea (“Saints preservus”) e non fa per niente rimpiangere l’assenza di Fiona Apple su “Left hand kisses”, improvvisando una litigata con se stesso degna di un vero sdoppiamento della personalità.
Un altro passo e torna polistrumentista per proporre i pezzoni “Three White Horses”, inceppatasi sul più bello ma potentissima nel refrain e ovviamente “Pulaski at night”, “un pezzo sulla mia città natale”, sorride ammiccante, come se non lo sapessimo. Ci ha stesi.
Ringrazia Birthh ed esce di scena, ma rientra subito. “Give it away” disgela anche la concentrazione del pubblico che si lascia andare, ma per pochissimo, in due battiti di mani a tempo.
Andrew Bird regala di tutto: attimi nostalgici, pezzi da lacrimoni, sorrisi e perfino frecciatine elettorali su “Sic of elephants”, con il suo “Can’t you see how dangerous / The one you chose is”. A un certo punto mi ha illusa togliendosi pure il mocassino senza fare un plissé. Perfezione.
Grazie Andrew, mi hai ripagato il conto.