il peso della cattiva informazione

Il peso della cattiva informazione

Partiamo da un fatto personale, che poi è la causa scatenante di questo articolo. Questi i fatti:

Sorrema, che di nome fa Tiziana, è la cofondatrice di un micronido a Mandello del Lario. Aperto da due anni è una realtà che sta crescendo, funziona bene e che, con tanti sacrifici, si sta imponendo nella comunità mandellese come una piccola perla di imprenditorialità locale. Tante iscrizioni fin da subito, genitori entusiasti, iniziative a pioggia e via discorrendo. E fin qui, tutto bene.

Fatto sta che che qualche giorno fa, una delle bimbe in gestione a Tiziana e a Giulia (la sua socia) ha accusato un malore ed è stata portata in ospedale per accertamenti. Il soccorso è stato eseguito in maniera tempestiva: alle prime avvisaglie del malore le maestre hanno chiamato il 118 e la bimba è stata portata in ospedale nel giro di pochissimi minuti. La piccola, dimessa due giorni dopo, ora sta bene. Tanto spavento, insomma, ma tutto è bene quel che finisce bene. 

Se non che, la mattina dopo il malore (con la pupattola ricoverata e ancora sotto accertamenti) il giornale locale La provincia, pubblica una notizia con questo titolo:

Capite bene che con la bambina ricoverata da poche ore e nemmeno uno straccio di diagnosi, il fatto che un giornale abbia mandato in stampa una notizia completamente infondata, non verificata, ottenuta peraltro da qualche insider dell’ospedale poco informato (non solo sulle condizioni della bambina, ma anche sul fatto che esiste una privacy da rispettare) è qualcosa di letteralmente inaccettabile. 

Inaccettabile perché una notizia del genere, se non verificata, può essere molto più grave di quello che si può immaginare: non solo per il rispetto dovuto alla bambina e ai suoi genitori (non stiamo parlando del royal baby, il diritto di privacy in questo  caso dovrebbe essere inviolabile) ma perché in un piccolo paese anche il solo sospetto di negligenza per un’attività basata sulla cura dei bambini, può rivelarsi una letterale condanna a morte. 

Inutile raccontarvi il panico che ne è venuto fuori, con mia sorella e la sua collega già provate per le condizioni della bimba, catapultate in quella che poteva dipanarsi come una storia sospetta e scivolosa. Solo l’intelligenza dei genitori e il rapporto di fiducia che si è instaurato nel corso dei mesi ha evitato che il pressapochismo di un redattore si trasformasse in una valanga fangosa da cui, rettifiche o meno (arrivate due giorni dopo), è sempre difficoltoso rialzarsi. 

E questo è il fatto personale.

E ora veniamo al discorso in generale, e cioè il problema dell’informazione in Italia. Su questo sito ogni tanto ne parliamo, purtroppo sempre con meno convinzione, perché sembra non esserci una reale via d’uscita. 

Il nostro sistema informativo è malato e lo è da un bel po’. Il progresso tecnologico e una cambio radicale delle abitudini dei fruitori ha scaraventato i giornali in un vortice fatto da un costante calo di vendite e bilanci in rosso, costringendoli a fare i conti con una sopravvivenza legata al web che sembra non essere stata ancora codificata nella maniera migliore.

Il calo di vendite a favore della fruizione gratuita su internet (al netto dei tentativi di far pagare contenuti premium, che vorrei capire quanto funzionino davvero) ha di fatto trasformato l’essenza stessa del giornalismo, perché ha obbligato le redazioni (ma possiamo ancora chiamarle così?) a virare verso un’immediatezza di contenuti che mal si sposa con la qualità dei contenuti stessi. Essere in prima pagina su google è fondamentale perché vuol dire avere l’unica speranza di funzionare economicamente, e per farlo non basta più “l’articolo curato, onesto, giusto”, ma servono una valanga di pezzulli che inseguono in maniera ossessiva una parola chiave. 

Parole chiave che, per essere funzionali e innescare il meccanismo virale che tanto serve sul web, vengono pescate direttamente nella pancia delle persone, in ciò che è scabroso, fa paura, ridere o indignare, perché si sa, è più facile interessarsi a una maestra che abbandona la bimba sul seggiolone che a una banale influenza (coronavirus escluso, of course). Indipendentemente dalla verità e dalla accuratezza. 

In questo cambio di metodologia, il giornalista classico, quello che ha funzionato fino ai primi anni del 2000 per intenderci, è pressoché sparito. Quello che faceva la gavetta, iniziava da praticante e imparava sul campo protetto da una redazione solida, semplicemente non esiste più. Ora ci sono eserciti di sbarbati che letteralmente lottano per pochi euro al pezzo, gente magari dotatissima eh, ma completamente priva del tempo necessario per imparare (e poi svolgere) al meglio quello che dovrebbe essere il proprio lavoro. E questo vale non solo per il giornalismo web, ma anche per quello “su carta”, perché il contenimento dei costi, la sparizione completa di contratti solidi o di compensi da freelance degni, ha costretto un po’ tutti a correre e a fare le cose con una superficialità inedita rispetto anche a solo 10 anni fa. 

A parte alcune realtà lodevoli (Open di Mentana è una di queste, il Post di Sofri un’altra, giusto per citare un sito che ha già una storia), infatti, sembra che la vecchia editoria non sia ancora riuscita a capire che la comunicazione, ormai, ha preso una strada completamente diversa. L’esplosione degli smartphone e il fatto che ormai l’informazione passi per il 90% sui dispositivi mobili non è un fatto collaterale secondario, ma è il vero motivo per cui tutto è cambiato. Si legge meno, si legge più velocemente, non c’è più il tempo (e la voglia) per dedicarsi appieno a un articolo superiore alle 2.000 battute (infatti io mi auguro che siate arrivati almeno alla storia di mia sorella :-D). L’impressione è che l’editoria vada avanti per tentativi, applicando logiche vecchie (di gestione e puramente editoriali) a problemi per lei inediti che, al contrario, necessitano di un cambiamento radicale nel modo di gestire e fare l’informazione. 

Cambierà un giorno tutto questo? Io non lo so. Il già citato Open potrebbe essere un modello da seguire, ma si tratta di una goccia, un pesce piccolo in questo mare ormai inquinato. La mia sensazione, scusate il pessimismo, è che per ottenere un reale miglioramento dovremo attendere la prossima generazione. Troppo grande il cambiamento necessario perché le realtà attuali riescano a costruire un modello funzionale alle risposte attese dal fruitore attuale. Troppo diversi gli interessi, troppo radicate le consuetudini per poter pensare di tirare una riga e immergersi a mente sgombra in questo (nuovo) mondo. Quando la dirigenza attuale andrà in pensione e i vecchi giornalisti (e ci metto dentro anche i quarantenni come me) finiranno di contrapporre i loro privilegi obsoleti alla liquidità lavorativa e “smart” tipica dei giovani, facendone tra l’altro una mera questione di qualità (che suvvia, non regge più), forse, una quadra la troveremo. Speriamo non sia troppo tardi.  

 

Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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