In occasione del terzo appuntamento con “Il Giornale Parlato, Rassegna d’informazione in scena” in programma al Franco Parenti di Milano, abbiamo potuto intervistare l’autrice, la giornalista Livia Grossi. Una chiacchierata molto interessante che, partendo dal suo lavoro in teatro, è arrivata fino al senso odierno della comunicazione e al ruolo, tristemente distorto, del giornalista.
“La realtà è un insieme di punti di vista e non sempre, purtroppo, il punto di vista dominante è quello corretto. Prendiamo ad esempio il Burkina Faso, un paese che il nostro metro di giudizio “occidentale” considera inequivocabilmente povero per mille motivi, uno su tutti perché il suo PIL non è rapportabile a quello di un qualsiasi paese europeo. Un dato incontrovertibile, senza dubbio, ma che rappresenta solo una faccia della questione. Perché se invece di basarci su dati economici, provassimo a raffrontare questo Paese utilizzando altri parametri, come ad esempio, il senso di comunione, il rispetto per la tradizione e per le conoscenze della comunità, il nostro punto di vista cambierebbe in maniera radicale, esattamente come la supposta supremazia europea.” Con questo pensiero, oltretutto off the records, Livia Grossi ci ha salutato al termine della nostra intervista. Lo riportiamo perché, meglio di qualsiasi altra cosa inquadra il lavoro che questa reporter, collaboratrice del Corriere della Sera sta portando avanti non solo con i suoi “pezzi su carta” ma anche e soprattutto con il suo lavoro in teatro. “Giornale Parlato, Rassegna d’informazione in scena” infatti, è una serie di incontri andati in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, con cui Livia ha portato sul palco le storie di alcune donne, ogni incontro una storia, tratte dallo spettacolo “Nonostante voi – Storie di Donne Coraggio” che la giornalista ha presentato per la prima volta lo scorso anno. Gli incontri hanno rappresentato un approfondimento di ogni tematica, grazie anche alla presenza di un esperto in materia. Il 12 maggio, invece, sempre al Parenti andrà in scena lo spettacolo originale (QUI la nostra recensione), con la presenza sul palco del musicista, nonché autore delle musiche, Andrea La Banca.
Noi l’abbiamo incontrata al termine del terzo appuntamento, in programma il 21 aprile, dove è stata raccontata la storia di Marietu ‘Ndaye, un’Antigone Africana divenuta portavoce contro la mutilazione genitale femminile. Una chiacchierata, quella con Livia, che ha spaziato su diversi punti, dalle motivazioni che l’hanno portata a realizzare quest’esperienza teatrale, al cambiamento subito dall’informazione, dal suo significato originale fino alle aberrazioni di questi ultimi venti anni.
Cosa ti ha spinto a provare la strada del “reportage teatrale”?
Tutto è nato dal desiderio di incontrare il lettore. “Un’entità” che solitamente con il mio mestiere difficilmente si ha modo di conoscere. Io credo che esistano storie che se non vengono raccontate si perdono così come credo che al giorno d’oggi, le notizie di cui veniamo investiti quotidianamente, hanno una scadenza “indotta” obbligata da esigenze che poco hanno a che fare con l’informazione. Con questi reportage in scena si instaura un contatto diretto, e si recupera il rapporto tra lettore e giornalista, perso ormai da molto tempo.
Come colmare l’apparente distanza tra i tuoi racconti e la nostra situazione, come far capire che non si tratta di storie lontane che non ci riguardano?
Si tratta di storie lontane, è vero, ma dalle tematiche terribilmente universali. Io parlo di persone che hanno avuto la forza di venire fuori, con autonomia e con coraggio. Storie accadute in luoghi lontani ma che ci appartengono, perché parlano del valore, della capacità e della resistenza di reagire con forza rispetto a tutto ciò che c’è intorno.
In passato c’è stato chi ha lottato per determinati diritti che noi, oggi, dando per scontati rischiamo di farci sfilare da sotto il naso. Abbiamo visto come si lotta per un diritto, ma come si fa a mantenerlo? Come non oltrepassare la soglia di attenzione necessaria?
L’importante è non calare mai la guardia, essere sempre vigili sulle questioni importanti. La nostra attenzione non deve venire meno, e non deve farlo nonostante il bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti. Dobbiamo essere presenti, non farci fregare dagli specchietti per le allodole che ci propinano ogni giorno. E poi non bisogna smettere mai di parlare di queste questioni, non delegare ad altri ciò che ci riguarda: il dialogo, il confronto, sono fondamentali.
L’identità femminile, come tu stessa hai raccontato nei tuoi spettacoli, è dettata da molti elementi esterni. Diamo per scontato che il mondo maschile non aiuta a sciogliere queste catene. Ma al di là di questo, le donne stesse potrebbero fare di più per conquistarsi il diritto ad un’identità non contraffatta?
Nonostante gli schemi sociali tentino di inchiodarci sempre a ruoli ben “allineati”, in Italia le donne hanno la possibilità di vivere ciò che sono. Siamo dotate di cervello, intelligenza e coraggio. Le donne che ho scelto per questo spettacolo, appartengono a situazioni molto più disagiate della nostra e se loro ce l’’hanno fatta, se loro hanno urlato il loro No, credo che noi donne “più fortunate”, con il colore della pelle “giusto”, abbiamo tutte le capacità per non farci deviare da stupide apparenze e falsi valori. Naturalmente questo sistema ha un potere enorme, noi dobbiamo lavorare sulle nuove generazioni, incontrarci, parlare, stare insieme. Guardarci negli occhi, cercare dialoghi veri e confrontarci. Non voglio fare la nostalgica, ma quelle piazze che 30 anni fa ci hanno dato molto, ora sono occupate da superficialità e felicità da discount. Noi dobbiamo riprendercele, dobbiamo riportare in piazza il confronto.
Le donne coraggio che racconti lottano contro la situazione in cui si trovano invischiate. Ma, qui da noi, devono anche lottare contro il loro stesso coraggio. Infatti un bambino indifeso commuove di più rispetto a queste donne combattive, suscita una pietà più facilmente condivisa. Forse perché, non essendo deboli e inermi, queste donne ci chiamano in causa, ci costringono ad un confronto con noi stessi?
La forza di reagire, l’essere forte appartiene a tutti noi. Il bimbo indifeso fa parte di alcune regole dei media che tendono a bombardarci per costringerci a mantenere bassa l’attenzione. La nostra capacità di analisi sta venendo meno, c’è una strategia del non pensiero atta a controllarci. Una strategia politica che vuole prima di tutto “tenerci buoni”. Ed è in questo senso che il coraggio di queste donne può fare paura, in verità ci fanno solo pensare a quanta importanza a volte diamo a problemi inutili, al posto di preoccuparci di questioni di sostanza che ci riguardano davvero.
Molte delle situazioni in cui si trovano le donne di cui parli sono dettate da fattori esterni, sociali, religiosi che convergono in un unico colpevole: l’uomo. Potresti descrivere in poche parole, se possibile, cosa spinge l’uomo a essere così? Debolezza?
L’uomo in questo caso non è più una persona, ma un pensiero, un modo di essere. Anche lui è vittima di una pressione sociale legata al suo ruolo. Non lo vedo come il colpevole assoluto, questa vuole essere una riflessione condivisa su cosa significa essere presenti e lucidi come individui al di là dei ruoli imposti. Noi donne siamo molto più coscienti di ciò, l’uomo forse è meno preparato, meno abituato a riflettere. Noi dobbiamo ritornare a un discorso di libertà individuale, al di là di quelli che sono i ruoli sociali che la società disegna per noi. Solo parlandone, possiamo evolverci. Se se ne parla, se ci si confronta il genere e tutto quello che questa parola si porta dietro si riduce a quello che in realtà è, una semplice etichetta.
Ci descriveresti le diverse emozioni che si provano a fare teatro rispetto allo scrivere per i lettori? E anche il diverso approccio alla scrittura?
Scrivere per un giornale è diverso. Bisogna colpire subito il lettore, già dalle prime righe. Con il teatro invece cambia tutto, la necessità è quella di agganciare il lettore in maniera più emotiva. Ciò che avviene su un palco è diverso, l’ascolto in una sala diventa rito. Un rito che colpisce emotivamente e intellettualmente. Si ascolta una storia, come facevamo nel ‘500 nelle corti Italiane, e come si fa ancora meravigliosamente in Mali o Burkina Faso, dove i cantastorie, i griot, raccontano questioni che riguardano la vita di tutti i giorni. Affrontano argomenti importantissimi che da soli non sappiamo affrontare. Si parla di tutto, dall’AIDS, all’infibulazione, dalle spose bambine fino a cosa significa emigrare, con tutto il peso sociale che questo comporta. Il teatro, il parlare, accorcia la distanza tra il messaggio e i suoi fruitori e io, con questo spettacolo e con il mio lavoro, mi sono sentita una specie di loro “collega”. Può sembrare un paradosso ma i griot fanno comunicazione molto meglio di alcuni giornalisti che stanno nel loro mondo, davanti a un computer, chiusi nei loro palazzi. Accorciare la distanza per me è fondamentale, e questo spettacolo rappresenta esattamente questo tentativo. Le distinzioni scompaiono perché sul palco la vera protagonista non sono io, ma la notizia. Io sono solo il canale che la trasmette, il tramite tra la notizia e il lettore, insomma non faccio altro che fare il mio mestiere.
Come vedi il futuro della comunicazione? Tu scrivi per un grosso quotidiano, il web ha modificato completamente il modo di fruire la notizia. Sulla carta tutto sembra essere a vantaggio del futuro, eppure la realtà dei fatti ci racconta di una comunicazione qualitativamente scaduta. Pensi possa esistere un punto d’incontro costruttivo tra la tradizione e i nuovi media?
Siamo in un periodo di enorme transizione. Il web non è ancora autorevole, la sensazione è quella, e io da un certo punto di vista sono d’accordo. In rete c’è tanta “fuffa” e troppa gente che scrive senza avere un minimo di deontologia, requisito fondamentale per produrre un pezzo onesto e soprattutto verificato. Siamo in un momento storico dove questo passaggio è in divenire, ma non è ancora compiuto. Io stessa quando mi rivolgo al web cerco di stare attenta, perché l’errore è proprio quello: scadere nella fretta e nella superficialità. Riguardo a un possibile punto di incontro, io credo che ci siano dei temi che si prestano più di altri all’unione tra vecchia e nuova informazione: se si ritornasse davvero a fare inchiesta, avremmo ancora più storie valide, e si potrebbe sfruttare il web per creare dei contenuti che possano davvero appassionare il pubblico. Ho notato che alcuni colleghi statunitensi stanno tornando all’informazione investigativa. Certe storie sono potenti, e potrebbero magari essere declinate a puntate per rendere nuovamente interessata la gente.
Tu fai reportage. Entri in contatto con la gente, in definitiva, tu sei una vera giornalista. Cosa ti senti di consigliare a chi vorrebbe intraprendere la tua professione? E cosa di sconsigliare?
L’unico consiglio che posso dare è quello di usare la stessa cura che, ad esempio, un panettiere mette nel fare il pane. La notizia deve essere valida, deve arricchire. Esattamente come un panettiere, il giornalista deve garantire al lettore un prodotto sano, che dia lo spunto per riflettere, per interrogarsi, per ragionare, insomma che nutra. L’informazione, la capacità di viverla, la possibilità di avere un ruolo fondamentale nella crescita delle persone, deve essere un privilegio. Il nostro lavoro non è il regalo, la marchetta, il cadeau o l’invito dell’inserzionista, essere giornalista non può ridursi a un mero tornaconto personale. C’è stato un decadimento drammatico della professione: il nostro essere sentinelle, il nostro essere portavoce della verità è stato demolito a colpi di scure negli ultimi 20 anni. Io personalmente spesso mi sono sentita molto imbarazzata nel rispondere alla domanda “che lavoro fai?” Perché quello che c’è in giro, per la maggior parte, non mi corrisponde.
Hai parlato di declino negli ultimi 20 anni. Cosa, secondo te ha portato la nostra professione a decadere?
Io credo che alla base ci sia un discorso politico di mantenere lo status quo: lasciare i diritti a chi li ha e far si che chi è privilegiato non perda i propri privilegi. Io, anche se sono iscritta da molti anni all’Albo, so bene cosa significa essere autonoma, essere pagata a pezzo, con partita iva e so bene quanta fatica ancora oggi faccio per fare bene il mio mestiere. Farlo credendoci. Oggi la sensazione è quella di lavorare a cottimo, di essere inseriti in una catena di montaggio dove ci sono giornalisti che guadagnano cifre ridicole, pagati a riga, o pochissimi euro a pezzo. Questo porta ad abbassare la qualità, perché per fare in fretta e portare a casa uno stipendio decente si sacrificano il metodo e l’accuratezza. Perché succede? Io non voglio fare dietrologia, intendiamoci, ma non è difficile pensare che meno persone informate ci sono e più facilmente puoi controllare la massa. I giornalisti validi per fortuna ancora ci sono, purtroppo però è difficile accorgersene, spesso spariscono in un mare di imbarazzante nulla.
Se il giornalismo tornasse a fare informazione e controinformazione, se tornassero le inchieste, se tornassero gli incontri dove ci si guarda negli occhi e ci e si racconta com’è la realtà, in modo semplice e diretto, forse qualcosa nella testa delle persone cambierebbe davvero. Forse la smetteremmo di assorbire supinamente quello che ci passano, inizieremmo a sviluppare un giudizio critico, inizieremmo ad interrogarci e guardare il mondo con più lucidità e senza stupide paure. Io credo che il nostro ruolo sia quello di far aprire gli occhi. Questo spettacolo è il mio modo per provarci.