Carmelo Sardo - Cani senza padrone

Intervista a Carmelo Sardo – Cani senza padrone. La guerra di mafia a cavallo degli anni ’90

Carmelo Sardo, autore di Cani senza padrone, oggi vice caporedattore cronache al Tg5, quando iniziò la carriera giornalistica a metà anni ottanta nella tv locale di Agrigento Teleacras, aveva di fronte a sé un mondo ben diverso da quello di oggi. Gli omicidi e la crudeltà più becera in Sicilia erano all’ordine del giorno e si è ritrovato ad essere un protagonista inconsapevole della guerra di mafia scatenatasi alla fine degli anni ’80 nell’agrigentino e nel nisseno, documentando per i siciliani ogni passo di quel terribile periodo. Oggi i suoi libri su quella guerra di mafia sono diventati un riferimento per comprendere una delle epoche più scure dell’intero ‘900 siciliano. Lo abbiamo intervistato alla presentazione a Milano del suo ultimo libro Cani senza padrone.

Ho letto questo incredibile affresco di Carmelo Sardo sulla guerra di mafia scatenatasi a cavallo degli anni ’90 nel sud della Sicilia. Il libro è davvero ben scritto, preciso e scorrevole, si vede il lungo lavoro di ricerca che c’è dietro, la preparazione meticolosa ad ogni pagina, di ogni riferimento, di ogni testimonianza.
Mi ci son legato subito perché sono nato nel 1983 ad Agrigento, e negli anni in cui crescevo la televisione parlava di morti ammazzati nei paesi intorno alla mia città un giorno sì e l’altro pure. Non c’era tregua a quel bollettino di guerra, a quella scia di violenza inaudita che accompagnava la mia infanzia e infondeva un senso di terrore che ancora non son certo sia stato estirpato dalla mia coscienza.
Oggi per fortuna le cose sono cambiate e non si spara più, ma è importante sapere cosa è successo in quegli anni terribili nelle provincie dell’agrigentino e del nisseno. Oltre ad una eccellente ricostruzione giornalistica e giuridica dei fatti, il testo apre una straordinaria indagine, potremmo dire antropologica, sulla personalità di coloro che si sono macchiatati di crimini così efferati. In un certo senso riesco a comprendere perché anche io sono cresciuto in questo luogo e so come tutto ciò è possibile che avvenga, ove ignoranza ed arroganza sono le caratteristiche dell’uomo di rispetto, di una società guasta ed abbandonata dalle istituzioni.

Nel tuo ultimo libro Cani senza padrone affronti una pagina cruenta della Sicilia, la guerra di mafia a cavallo degli anni ’90, attraverso uno studio fatto di grandi analisi e una profonda documentazione del fenomeno. Com’è andata e quanto è durata la tua ricerca? La ricerca che ho fatto mi è costata sette anni di sacrifici su e giù per l’Italia. Sono stato nelle carceri italiane dove sono sepolti, è il caso di dire, i protagonisti di quella storia che sono stati condannati all’ergastolo, ma ho incontrato anche, nelle località segrete, i collaboratori di giustizia per farmi raccontare e cercare di capire, anche da un punto di vista antropologico, come fosse stato possibile che figli della nostra terra si fossero lasciati “abbindolare”.
Perché di questo si tratta nella mia ricerca, di veri mafiosi che hanno tentato di far credere loro, facendo leva sull’ignoranza, che un giorno sarebbero potuti diventare uomini di spessore, ricchi e potenti boss. Sono stati la manovalanza interna ed intestina a Cosa Nostra, che li ha giostrati secondo i propri scopi ed interessi.
Successivamente, grazie all’affondo dello Stato da un lato e di chi, tra questi ragazzi, ha deciso di passare dalla parte dello Stato e collaborare, quella guerra di mafia ha subito un duro colpo. Molti collaboratori hanno fatto chiarezza ed inflitto il colpo decisivo a quell’organizzazione criminale e liberato la Sicilia, non dico dal cancro della mafia che poi si è evoluta in mille rivoli, ma almeno da quella cruenta guerra che ha fatto, nella sola provincia di Agrigento tra il 1989 ed 1992, qualcosa come 400 morti ammazzati.

La figura del giudice Livatino è centrale nella tua opera, in quanto è stato l’omicidio più eclatante, vista la sua figura istituzionale, di quella guerra di mafia. Lui, come tu ben riporti nel libro, non è stato ammazzato perché indagava genericamente sulla mafia ma, quasi certamente, per le sue indagini sui movimenti finanziari della mafia. Il giudice, come già Leonardo Sciascia disse anni prima, era di quella scuola di pensiero secondo la quale se un mafioso lo metti in carcere non gli fai nulla, ma se gli tocchi il conto corrente lo metti in ginocchio. Livatino ha avuto il grande intuito, prima ancora di altri giudici antimafia, di seguire la traccia ed il flusso del denaro dei mafiosi. Se noi oggi proviamo a leggere le motivazioni della sentenza con cui sono stati condannati all’ergastolo mandanti e killer del giudice, leggiamo una cosa che fa a cazzotti con quello che ho potuto scoprire attraverso le mie indagini, che hanno portato alla stesura di Cani senza padrone. In quelle motivazioni c’è scritto che Livatino è stato ucciso dall’organizzazione criminale denominata Stidda perché quest’ultima voleva dimostrare di essere forte e scalzare Cosa Nostra dal territorio.
Con il mio lavoro ho potuto dimostrare, attraverso documenti, interrogatori, incontri sia con collaboratori di giustizia che con detenuti non pentiti, che tutti questi ragazzi sono stati abbindolati dai vecchi mafiosi per fini utili a Cosa Nostra. Quando ho parlato con gli esecutori materiali dell’omicidio del giudice, mi hanno riferito che non sapevano neanche chi fosse “questo” Livatino, avevano solamente avuto l’ordine di farlo fuori ma non avevano idea di chi fosse. Non sapevano che fosse il giudice che aveva cominciato a colpire i patrimoni dei capi di Cosa Nostra di quelle provincie, che avevano come unico interesse quello di lasciare la propria ricchezza a figli e famiglia affinché potessero prosperare e vivere serenamente e, nella Sicilia di quegli anni, quando andavi a toccare quel “serenamente” ti costruivi la tomba da solo.
Lo Stato, fino a prima dell’omicidio di Livatino, pensava fosse una guerra tra “loro”, cioè che si ammazzassero tra mafiosi stessi e faceva la parte dello spettatore interessato. Ricordo il giorno in cui hanno ucciso il giudice, c’erano Falcone e Borsellino che fumavano una sigaretta dietro l’altra attorno al cadavere di Livatino, lì lo Stato si rese conto che quella non era più solo una guerra tra “loro”, ma che avevano alzato il livello dello scontro. Da quel momento lo Stato ha cominciato a mettere in campo le forze giuste per poter sconfiggere, come poi è successo, la Stidda.

All’epoca avevi appena iniziato la carriera di giornalista a Teleacras, tv locale di Agrigento, il mondo era molto diverso, non c’era internet e muoversi era più complicato di adesso. Riporti spesso nei tuoi libri delle chiamate che ricevevi per andare subito sul posto a documentare il delitto. Come vivevi quella quotidianità? Paura? Adrenalina? La sensazione che avevamo svegliandoci al mattino è che da un momento all’altro sarebbe arrivata o la telefonata del poliziotto amico o che la radio scanner “gracchiasse” qualcosa. Per noi la quotidianità era, non tanto cosa succede oggi, ma chi uccidono oggi, soprattutto negli anni che vanno dal 1986 al 1992.
Letteralmente correvamo da un morto ammazzato all’altro e la documentazione di quelle scene era come un film visto e rivisto, fino a quando non mi sono trovato, quel mattino del 21 settembre del 1990, davanti al cadavere di un giudice indifeso, solo, giovanissimo, aveva appena 37 anni. 
I miei colleghi degli anni 2000, con cui lavoro adesso ,rimangono increduli quando racconto loro che non avevamo tempo neanche per occuparci degli assalti in banca, dove magari rimaneva anche ferito qualcuno nella sparatoria, ma noi quella materia non la trattavamo neanche, perché eravamo così assorbiti dalla guerra di mafia che non c’era spazio e tempo per documentare altro. Oggi, per fortuna, se si va in Sicilia i problemi sono ben altri, sicuramente non c’è il rischio di passare in mezzo ad una strage come succedeva in quel tempo.

Dopo il successo di Malerba, ormai best seller mondiale tradotto in molte lingue e con produzioni cinematografiche, dove si inquadra Cani senza padrone, è complementare o sono due opere diverse? Sono due opere diverse che però hanno sullo sfondo la stessa storia. Il protagonista di Malerba è stato anch’egli uno “stiddaro”, nel libro racconta il suo percorso criminale, prima, e quello di recupero e resipiscenza avvenuto in maniera straordinaria, dopo.
Cani senza padrone invece è più un saggio romanzato che mette al centro la storia di tanti di questi “figli di nessuno” della nostra terra. Inoltre, ed è una cosa che mi inorgoglisce molto, mentre con Malerba abbiamo preso e continuiamo a ricevere molti premi, con l’interesse anche di grandi produttori come Luccisano per sviluppare un progetto cinematografico, adesso anche Cani senza padrone comincia a richiamare l’attenzione. Uno dei più grandi attori e registi italiani, Michele Placido, si è innamorato così tanto di questa storia che ha opzionato i diritti per farne un film.

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Su Roberto Bruccoleri

Nato ad Agrigento nel 1983, si forma a cavallo degli anni '90 tra sale giochi, campi di calcetto di cemento e spiagge incontaminate, a 18 anni ha la fortuna di andare a studiare a Roma e lì la vita gli comincia ad offrire le meraviglie che è capace di elargire. Instancabile viaggiatore e famelico lettore, si vanta continuamente di essere nato a metà strada tra i paesi natii di Sciascia (Racalmuto) e Pirandello (Porto Empedocle), la sua massima è: "l'ignoranza è la verginità della mente".

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