Abbiamo avuto il piacere di intervistare Camilla Semino Favro, attrice di teatro, Tv e cinema che quest’anno ha avuto un ruolo in 1993, la serie Sky nata da un’idea di Stefano Accorsi. Abbiamo parlato di tutto, dal suo amore per il mestiere di attrice e per il teatro, fino ai social, croce e delizia di chi, per lavoro, ha un’immagine pubblica da alimentare
Camilla Semino Favro, tra teatro cinema e televisione
Vi abbiamo già parlato di Camilla Semino Favro, attrice ligure recentemente nel cast di 1993 nel ruolo di Eva. Ci aveva talmente colpito una sua interpretazione a teatro che, tempo fa, abbiamo voluto farla portavoce di una nostra campagna a favore del riconoscimento del talento, ovunque esso si trovi. Qualche giorno fa, abbiamo potuto passare assieme a lei una serata meravigliosa (cioè, per noi lo è stata, a Camilla non abbiamo avuto il coraggio di chiederlo) a base di vino, patatine e taralli. Ne è venuta fuori una chiacchierata divertente e appassionata in cui Camilla ci ha raccontato un sacco di cose, partendo dal suo primo Arlecchino fino a quello che le riserverà il prossimo anno. In mezzo tanto teatro, tanta passione, tanto impegno. Si tratta di molta carne al fuoco, per cui, mettetevi comodi.
Spulciando la tua biografia in rete, abbiamo scoperto che sei originaria della Campania, Torre del Greco, poi hai vissuto l’adolescenza in Liguria e ora vivi a Milano. Quanto pensi abbia influito sul tuo background artistico “respirare” luoghi e atmosfere così diverse? Ti senti più Ligure, più Campana o un miscuglio di tutto? Indubbiamente mi sento prima di tutto ligure, anzi ligurissima. I miei sono liguri, io sono nata a Torre del Greco perché mio padre ha lavorato lì per dieci anni. È vero però che ogni volta che torno a Napoli mi sento a casa, ci sto bene. Quest’anno ho lavorato lì, ho recitato in uno spettacolo al Bellini con la regia di Gabriele Russo e sono stata benissimo. Tra Genova e Napoli ci sono delle similitudini enormi, sono entrambe città di porto: gli odori, i carrugi genovesi e i vicoli di Napoli, insomma io mi sento a casa in entrambe le città.
Milano invece mi ha dato “le regole”. La scuola che ho frequentato, il Piccolo Teatro di Milano, è rigorosa come questa città, mi ha dato un metodo con cui creare e ampliare il mio modo di essere attrice.
Lavorativamente parlando variare serve, è un arricchimento, cambiare aria è necessario perché quando ti sposti non cambi solo i luoghi, ma le persone con cui vivi, con cui lavori.
Come è nato in te il desiderio di diventare un’attrice? È stata una folgorazione, oppure è stata una consapevolezza che è maturata nel tempo? Hai il ricordo di un’attrice, di uno spettacolo che ti ha particolarmente colpito e che ha dato il là alla tua passione? Ho iniziato la mia prima scuola di teatro a 11 anni e questo perché ero una di quelle bambine che hanno provato e si sono stufate subito di tutti gli sport possibili. Un giorno mia madre portando il nostro cane dal veterinario, che era anche il regista di una compagnia teatrale amatoriale, lesse un cartello che pubblicizzava una scuola di teatro, la Quinta Praticabile. Ho iniziato lì, mi è piaciuta fin da subito e l’ho frequentata per oltre 6 anni. Tutta la mia base è nata in quel periodo, la mia cultura teatrale e tutte le mie amicizie si sono formate in quella scuola.
Poi il veterinario mi chiese di entrare nella sua compagnia e per circa tre anni ho lavorato con loro, la mattina andavo al liceo e la sera alle prove. Abbiamo fatto di tutto, da Garinei e Giovannini fino al Re Leone (“una figata pazzesca”).
Quindi, quando ho finito il liceo, per me e alcuni amici è stato naturale fare le audizioni per entrare in una scuola di teatro.
Lo spettacolo che mi è rimasto nel cuore, invece, è l’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler, da cui sono rimasta folgorata. Uno shock è stato soprattutto “scoprire” Ferruccio Soleri quando si è tolto la maschera: un uomo canuto, di corporatura esile eppure potentissimo. La cosa bella è che quando ho finito la Scuola del Piccolo io ho fatto l’Arlecchino per 4 anni, facevo il camerierino (il ruolo destinato a chi entra per ultimo) e c’era Ferruccio… per me è stato stupendo.
Quanto influenza la crescita personale il mestiere di attore? Scavare, lavorare e riflettere sui personaggi favorisce una formazione personale più profonda (rispetto alla media) o porta solo ad una follia più marcata? [Ride. Forse per la domanda. Forse per come l’abbiamo posta] Io penso che per fare questo mestiere la crescita personale sia fondamentale: il proprio vissuto, studiare, guardare film, andare a teatro. E poi crescita personale in senso stretto: l’analisi per trovare un equilibrio e conoscere quali sono i tuoi buchi neri, non per superarli, ma per saperli gestire. Non scappi da te stesso, sei tu che vai in scena e ci metti dentro un mare di roba tua e, visto che è tua, devi stare attento a non “buttarla” a caso. Questo è un mestiere che mette in difficoltà dal punto di vista emotivo. C’è il giudizio degli altri che è un mostro, ma esiste anche il giudizio verso se stessi. Per evitare di soffocare è necessario sapersene distaccare, uscire dal ruolo del personaggio ma anche da quello dell’artista: è necessario divertirci sfruttando quello che siamo.
Un tempo andava di moda l’attore maledetto. Io mi sono stufata dell’attore con il dramma esistenziale, credo sia necessario cercare di stare bene. Non sai quanto si lavora meglio in un clima sano, con gente sana, per cui provi amore. Le frizioni possono anche essere utili al lavoro, è vero, ma c’è un limite.
Quanto l’attore può riversare parte del suo essere all’interno di un ruolo? Quanto di Camilla c’è in Desdemona, in Eva e negli altri tuoi personaggi? Sei sempre tu che interpreti il personaggio, attingi sempre e chiaramente da te.
Spesso si criticano gli attori perché sono sempre uguali a se stessi. Da un lato è così perché in effetti siamo sempre noi. Poi esistono ruoli che ti portano più lontano, altri meno.
Io credo che tutto stia in quanta voglia hai di giocare e trovare cose nuove all’interno del lavoro; a volte non le cerchi nemmeno, saltano fuori. A me capita anche a lavoro in corso: a volte mi accorgo di qualcosa, magari impercettibile, che modifica il personaggio.
Infine dobbiamo tenere presente le difficoltà dovute al fatto che i ruoli vengono affidati anche in base alla fisicità e, soprattutto, in televisione e al cinema: se non sei un attore affermato difficilmente puoi scegliere i ruoli da interpretare.
Quali attori preferisci in generale? È vera l’equazione che lega la popolarità a un talento “mediocre”? Mi piacciono attori diversi, tanti, ovviamente di teatro. Esistono attori teatrali strepitosi che non vengono presi in considerazione dal cinema, un attore di teatro secondo me bravissimo è Paolo Pierobon che, oltretutto ho visto lavorare in 1993 (dove interpreta un Silvio Berlusconi credibilissimo ndr).
Per quanto riguarda il rapporto tra popolarità e talento, diciamo che vedo tantissimi attori che hanno una mole di lavoro superiore a quello che è il loro reale talento. Io credo che da un lato succeda perché certi attori piacciono al pubblico e quindi portano con loro un’audience data dalla loro popolarità, dall’altro perché le produzioni hanno paura di rischiare e quindi si buttano sul nome “sicuro”. Questo però è un circolo vizioso, perché se al pubblico continui a servire “pasta in bianco”, non arriverà mai a capire quale interpretazione è realmente meritevole di una lode.
Quale personaggio e quale spettacolo in cui hai recitato ti è rimasto più nel cuore? E al contrario quale spettacolo e quale personaggio non ricordi con piacere? E perché. Un personaggio che si chiama Lulu, di Shopping & Fucking di Mark Ravenhill, primo spettacolo recitato all’Elfo con la regia di Ferdinando Bruni: era il 2010, l’ho amato da morire ed il testo è meraviglioso. Poi ho amato un personaggio interpretato due anni fa, con la regia di Giacomo Bisordi, il testo è Fred’ Diner di Penelope Skinner, ed è la storia di tre cameriere ‘anni 50’. Io ero Melissa, ragazza con un rapporto malsano col padre. Un altro personaggio che ricordo con piacere è Dina Dorf in I pilastri della società di Henry Ibsen con la regia di Gabriele Lavia. Un ricordo divertente è legato a Racconto d’Inverno di Shakespeare. Quell’anno interpretavo sia Perdita sia il fratellino Mamillio: alla fine Perdita, che era il mio personaggio principale mi annoiava, mentre invece ho amato da morire Mamillio, per la sua simpatia e per il fatto che era diventato una sorta di mascotte per tutta la compagnia.
Al contrario, non ricordo personaggi che non mi sono piaciuti, piuttosto ci sono stati spettacoli “difficili”, soprattutto per il mio stato d’animo in quel momento.
I tuoi ultimi lavori a teatro sono stati un successo e le recensioni (non solo la nostra) sulle tue prove d’attrice sono state tutte positive. Quanto conta per te il riscontro da parte degli addetti ai lavori e quanto quello del pubblico? Il riscontro degli addetti ai lavori in qualche modo ti segna. Le critiche, sia positive sia negative, non dovrebbero toccarti, però è indubbio che hanno effetto su di te. I giudizi dei colleghi, per esempio, sono sempre da prendere con le pinze, per molti motivi. Io ho le mie persone fidate, libere di comunicarmi giudizi sia positivi che negativi. E mi serve molto.
Quali sono le dinamiche all’interno di una compagnia teatrale? L’affiatamento sul palcoscenico va di pari passo con quello nella vita reale? Secondo me dipende molto dalle situazioni anche perché l’affiatamento sul palco non va di pari passo con la vita. È chiaro che il clima di lavoro per me è fondamentale, io, ad esempio, se sto bene si sente e soprattutto si vede.
Poi ci sono stati spettacoli con un clima interno difficile, ma l’apparato era talmente forte e solido che si riusciva a sopperire a tutto il resto. Inoltre ogni spettacolo fa storia a sé, c’è quello che punta sul testo, altri sulla scenografia e altri ancora sulla coesione del gruppo. Io feci uno spettacolo allo Stabile di Torino, 6 Bianca, di Serena Sinigallia, una rappresentazione in sei puntate. Noi attori vivevamo tutti insieme in una foresteria di Moncalieri, una situazione meravigliosa ma comunque rischiosa perché gli equilibri erano delicati e, vivere tutti insieme, poteva creare qualche problema. Alla fine andò meravigliosamente, si creò un legame molto forte e complice con tutti.
Cosa ti lascia uno spettacolo teatrale, quando finisce? Cosa resta quando le date in calendario si esauriscono e i riflettori si spengono? Noi diciamo sempre che c’è un po’ di down di fine spettacolo. Se hai lavorato bene il dispiacere per la fine è logico. Inoltre bisogna considerare l’abitudine, i mesi di prove e poi le repliche.
Lo stesso discorso vale per alcuni personaggi. Alcuni mi sono mancati tantissimo, sia per com’erano, sia perché prendevano vita anche all’interno della compagnia. E ti dirò di più, spesso mi mancano anche i personaggi non miei, per via dei legami che si sono creati con il testo e con gli attori che li interpretano. Tornando ai miei personaggi, con molti si è chiuso un ciclo e mi mancano in maniera “sana”, altri, invece, avrei voluto averli ancora con me, per approfondirli, riprenderli.
Cosa vorresti lasciare della tua recitazione al pubblico? Tu sei soddisfatta se lo spettatore si alza dalla sedia e… intanto se si incuriosisce a qualsiasi cosa riguardante lo spettacolo: per esempio se torna a casa e compra un testo dell’autore o si informa sull’opera, sulla regia, sugli attori. E poi sono contenta se c’è stata condivisione, se è nato qualche sentimento, se anche solo una battuta ha aperto un file, ha divertito, ha fatto arrabbiare.
Ma allora il famoso egocentrismo dell’artista? Si parla sempre dell’ego dell’attore, a volte a sproposito. Io credo che ci siano attori con un rapporto molto diverso con la propria centralità. Esistono attori che portano sul palco, spesso in maniera inconsapevole, una grande autoreferenzialità, altri invece meno. Io provo a percorrere la seconda via, perché non bisogna mai dimenticare che noi “dovremmo” essere al servizio dello spettacolo e dello spettatore. Io credo che per evitare il più possibile l’autoreferenzialità è necessario variare, fare sempre le cose “comode” non consente di crescere. Mettersi in gioco e, perché no, prendere dei calci in culo a volte aiuta.
Esiste un senso di responsabilità verso i personaggi che interpreti? Ogni personaggio è portatore di qualcosa e quindi ha un vissuto, che sia una tragedia, che sia una grande festa, che sia un qualcosa di tutto: per cui sì, la responsabilità c’è.
Poi capitano personaggi come Eva di 1993, una ragazza sieropositiva, che ha la sua storia ma porta con sé un impegno anche nei confronti di chi, realmente soffre di questa malattia. Banalmente, l’HIV, prima di interpretare quel ruolo, lo conoscevo in maniera sommaria. Ho dovuto informarmi, ho parlato con persone affette da questo male e mi sono presa la responsabilità di riportare in scena una consapevolezza il più possibile attinente con le problematiche che l’HIV porta con sé.
Nella vita tutti portiamo una maschera, Pirandello è convinto addirittura che le maschere umane siano molte più di una. Cosa comporta portare una maschera per lavoro? Ha delle conseguenze nelle tue relazioni quotidiane? La società in cui viviamo è la stessa e i problemi con cui raffrontarci sono esattamente gli stessi di tutte le altre persone, per cui non vedo tanta differenza tra un attore e chi fa altri mestieri; anzi, io credo di aver conosciuto gente che fa ben altro e che si porta dietro molte più maschere di me. Io ad esempio mi baso sempre sui miei genitori, la mia famiglia. Hanno fatto un percorso molto diverso dal mio, eppure io vedo perfettamente tutti i blocchi, le paranoie a cui sono soggetti, a volte molto più di me. Ecco, nel fare questo mestiere mi sono resa conto che indipendentemente da quello che si è e si fa, c’è bisogno di un’analisi accurata di sé.
Come ha reagito la tua famiglia alla tua scelta di fare l’attrice? In maniera molto pragmatica. Mi hanno detto che non c’era nessun problema a patto che prima frequentassi un’accademia e non un corso a pagamento, e, in seguito, riuscissi a ottenere risultati positivi nei primi anni. Io ho fatto tutti i provini, sono entrata al Piccolo (che è una scuola completamente gratuita) ed eccomi qui.
Cosa penalizza il teatro presso il grande pubblico italiano? Il fatto che obbliga lo spettatore a uno sforzo mentale maggiore? I ritmi troppo lenti? Fai un appello: perché le persone dovrebbero andare a teatro? Io credo che la penalizzazione del teatro sia dovuta al fatto che lo spettatore ha abbassato, e di molto, la soglia dell’attenzione. La televisione è veloce, le app sono veloci, tutto è più veloce. Il teatro non lo è. A teatro devi fare uno sforzo fisico anche solo per raggiungerlo e poi devi impegnarti per restare attento dall’inizio alla fine.
Un appello? Io direi ad un giovane di venire a teatro perché scoprirebbe che, in un processo apparentemente più lungo, si possono aprire delle porte che un programma televisivo o un film magari non aprono. Forse può suonare banale, ma credo che sia un impegno morale salvaguardare e comprendere il teatro, perché questa forma d’arte è socialità pura, e al giorno d’oggi ce n’è più bisogno di quel che si può pensare.
D’altra parte, però, penso che ci sia una grande necessità che il teatro vada verso il pubblico. Visto che la gente non viene verso di noi, dovremmo essere noi a muoverci e andare verso di loro, senza rimanere trincerati dietro un elitarismo controproducente.
Abbiamo letto in una tua intervista che l’unico aspetto negativo del tuo lavoro è la precarietà a cui obbliga. Fino a che punto saresti disposta a scendere negli inferi del commerciale per ottenere una stabilità? Se ti proponessero un cinepanettone? [Ride] Se un attore imbrocca un film di estrema qualità o, ancora meglio, inanella una serie di film di qualità, potrebbe decidere di non prendere mai parte a un cinepanettone. Ma tutto dipende dalle necessità. Parlando di me, ad esempio, ora sono una persona sola, senza figli, se avessi bisogno di lavorare non ne farei una questione morale. Se avessi bisogno e mi offrissero un ruolo nel cinepanettone, ovviamente ben pagato, beh, non ci vedrei nulla di male nell’accettare. Ora tutti considerano i film di questo tipo come dei semplici sbancabotteghini, va anche detto però, che se i vari “Natale a…” li fai al massimo delle tue possibilità, potrebbero anche rivelarsi un’esperienza divertente.
Tu prima di 1993 hai lavorato in altre grandi produzioni, ma con la serie prodotta da SKY hai potuto raggiungere un pubblico parecchio vasto e soprattutto giovane e eterogeneo. Come cambia la percezione del proprio lavoro? Alla fine non cambia davvero nulla, ho avuto dei feedback positivi e la cosa mi è piaciuta. Dal punto di vista lavorativo mi ha consentito di avere una visibilità maggiore, quindi il mio nome ora gira più facilmente tra i casting director, anche se questo non vuol dire che automaticamente ti prendano. Per quanto riguarda la mia percezione di 1993 devo ammettere che sono rimasta stupita del lavoro finito. Mi sono piaciuta, il lavoro che ho fatto aveva dell’interesse perché in alcuni punti si staccava molto da me. Questa, certo, è farina non solo del mio sacco, ma anche di Domenico (Diele, il Luca Pastore della serie) e del regista Giuseppe Gagliardi.
In 1993 le tue scene, in pratica, sono state recitate tutte affianco a un unico attore (Diele). Cosa comporta questo modo di lavorare? È più piacevole la forza del legame che si instaura col partner, o è più limitante il fatto che si è tagliati fuori dal corso degli eventi della trama? Ti dirò, non cambia nulla. A me piace sapere qual è il ruolo del personaggio in funzione della storia e la mia Eva è stata un “motore” fondamentale per alcune scelte fatte da Pastore, indipendentemente dalla sua “adesione” agli eventi principali. Eva ha una grande forza perché pur essendo un personaggio secondario, è stato scritto talmente bene che nelle otto puntate della serie mostra un arco di vita definito e ben strutturato. Ciò le ha permesso di funzionare bene, piacere al pubblico e andare ovviamente a favore di chi l’ha dovuta interpretare.
Per tua stessa ammissione maneggi molto poco i social. Detto ciò, i vari Facebook e Instagram sembrano essere una parte preponderante di chi ha una personalità pubblica. Un esempio lampante, sempre per restare nel cast di 1993, sono Miriam Leone e lo stesso Accorsi, due vere potenze social. Quanto pensi serva per la tua professione, è funzionale all’essere attore, o è semplicemente utile all’alimentazione della popolarità (che è ben altra cosa)? I social oggi sono i mezzi di pubblicazione più veloci, hanno acquisito un’importanza fondamentale per moltissime persone e soprattutto per la nuove generazioni sono diventati uno strumento prezioso di comunicazione.
Io mi sto imponendo di usarli perché i social, tra le altre cose, hanno modificato in qualche modo anche la professione dell’attore, specialmente di chi si occupa di cinema e televisione. Non sempre, ma molto spesso, infatti, capita che la visibilità conseguita sui social vada a incidere anche sulla popolarità legata allo schermo della tv o del cinema. Questa è una cosa che non mi fa piacere, è evidente, perché sarebbe meglio che un attore andasse avanti anche senza l’uso di questi mezzi, purtroppo però, i tempi sono questi, e in qualche modo ci dobbiamo adeguare. Ora mi sto impegnando a usare Instagram, una foto ogni tanto, qualche “stories”. Facebook, invece, lo uso solo per pubblicare canzoni, perché penso possa piacere alle persone ascoltare e magari scoprire brani nuovi, oltre, ovviamente, a pubblicizzare gli spettacoli che faccio.
Scrittori, libri, film, attori, cantanti preferiti? Rispondo al netto della ricerca teatrale, cioè dei libri che leggo per lavoro. Spesso infatti mi accorgo che la mia ricerca è orientata alla mia professione e trascuro quello che potrebbe piacere a me. È dura trovare il tempo. Per gusto personale ora sto leggendo Carrer, di cui ho comprato l’Avversario e Limonov. Poi sto leggendo 22/11/63 di Stephen King.
Ultimamente ascolto rap italiano e molto cantautori giovani, gente come Dutch Nazari e Willie Peyote e poi non abbandono mai i classiconi con cui sono cresciuta, Wilson Pickett, Dire Straits e i Queen. Per quanto riguarda i film, ultimamente ho visto uno dei film più fighi degli ultimi anni: Swiss Army Man diretto da Dan Kwan e Daniel Scheinert.
Quando e dove ti rivedremo? Uscirà il film di Francesca Comencini “Amori che non sanno stare al mondo”. Sarò al teatro di Brescia con Giorgio Sangati ne I due Gentiluomini di Verona di Shakespeare, dal 22 di ottobre al 5 novembre. Poi farò la tournée di uno spettacolo fatto al Bellini di Napoli, “Il giocatore” di Dostoevskij con la regia di Gabriele Russo. Partiremo da Udine verso Dicembre e toccheremo un po’ di città italiane.
Chiudiamo in bellezza: sotto la doccia tutti cantano, tu che fai, reciti? Se sono sotto spettacolo in effetti ripasso la parte. Ma di solito assolutamente no! Sotto la doccia metto la musica e canticchio, il più delle volte non canto canzoni italiane, solo grandi classici stranieri, hai presente Freddy Mercury?
Ok, se siete arrivati fin qui è perché avete letto tutta l’intervista. Un’intervista bellissima, va detto. Ora che siete arrivati qui, dicevamo, è nostro dovere però, essere sinceri. Sì, perché quella che doveva essere una semplice chiacchierata, si è trasformata in realtà in un lungo, vorticoso delirio che ci ha portato a tirare le 4 di mattina. Una vera e propria zingarata di quelle che nascono spontanee tra vecchi amici e che a noi, invece, manco fossimo Scamarcio e Bova (decidete pure voi chi è chi) è capitata con un’attrice di fama nazionale. In quei lunghi momenti di off records e di risate, conditi da vino e battute inopportune (solo nostre eh) a zonzo per l’Isola di Milano, c’è tutta la Camilla che il pubblico non conoscerà mai e che abbiamo potuto goderci fino a pochi attimi prima dell’alba.
Perdonateci se ce la teniamo per noi, ma si è trattato di un regalo inatteso e come tale vogliamo custodirlo gelosamente.
In compenso, però, visto che vi vogliamo bene, abbiamo deciso di darvi qualcos’altro, lo trovate QUI. Si tratta, banalmente, di un po’ di pensieri che abbiamo prodotto e buttato giù a poche ore dalla nostra pseudo-intervista. Non perché voi lettori ne sentiate la reale necessità (del resto, si scrive non solo per chi legge, ma soprattutto per se stessi) ma più che altro perché vogliamo in qualche modo giustificarci. Con lei, certamente, ma anche con noi e la nostra professionalità.
Ovviamente il pezzo è anonimo, nel senso che non potrete mai attribuirlo all’uno o all’altro, perché va bene sputtanarsi, ma anche noi -per quanto Camilla possa tranquillamente affermare il contrario- abbiamo un limite all’indecenza.
Basso, ma ce l’abbiamo.
Massimo – Agafan
photo: Pierpaolo Redondo
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