la donna di belgrado

La donna di Belgrado

Un incontro, due chiacchiere, delle cartoline da vendere, un condensato di vita che prova a tirarsi insieme, un ricordo vivido dell’Italia e di una Renault Clio. Ecco gli ingredienti di questo pezzo con protagonista una donna di Belgrado. Gli abitanti di un paese reduce di guerra sono così uguali e eppure così diversi, stretti costantemente tra un imprecisato desiderio di normalità e una rabbia malcelata a cui è difficile dare sfogo, figurarsi una direzione

Più all’ombra della piazza assolata, dove accanto all’edificio sventrato dai missili svetta l’enorme cartellone raffigurante una soldatessa in divisa che saluta fiera la Nazione, cerchiamo ristoro dal caldo delle 2. Prendiamo un sandwich e un’insalata serba, una birra e un bicchiere di vino bianco in un bar del centro, lungo l’area pedonale. Ci sono i negozi, c’è H&M, c’è il McDonald. Da un vetrina con borse e tailleur leggiamo anche i consigli di moda che Chanel e Armani danno ai loro clienti. Nella fontana accanto fanno il bagno due ragazzini zingari di 8 o 10 anni, si aggiunge a loro la sorellina più piccola: giocano con gli spruzzi, gridano e ridono, nessuno ci fa caso.  Poi se ne vanno di corsa, strattonandosi ed inseguendosi con i pantaloni e la maglietta bagnata

Viene al nostro tavolo una donna, bella, ci dice di aver 40 anni. Ha con sé una borsa piuttosto grande, in mano una pezza ricamata all’uncinetto, qualche foglio e un paio di cartoline sbiadite con vista della città. Indossa un top azzurro e un paio di pantaloni bianchi pulitissimi. È curata, ha i capelli biondi e in ordine, fatica a camminare, si chiama Maja, parla un ottimo inglese, ha modi gentili, ci sembra spaventata. La ascoltiamo: fa parte di un’associazione attiva nell’aiuto dei disabili. Sono molti, ci dice, i serbi che non possono lavorare a causa di precarie condizioni fisiche e che non beneficiano di alcun aiuto da parte dello Stato. Lei è una di loro: è reduce da un incidente, è stata operata, ha le gambe storte. Ci dice che negli ospedali serbi per accedere a buone cure è necessario ungere primari e medici, ma lei è stata fortunata, dopotutto le gambe non gliele hanno tagliate. Ha una figlia di quattro anni, non accenna ad un marito, le bollette le paga alternate, una volta gas, l’altra luce, cioè quando ha i soldi. La invitiamo a sedersi con noi al tavolo, ma rifiuta gentilmente: non sarebbe più in grado di rialzarsi. Curva e appoggiata alla sedia, ci racconta di quando aveva vent’anni e, con una Renault Clio, era venuta in Italia, a Firenze, in vacanza con i suoi amici: “Era bellissimo potersi spostare così, viaggiare dove si voleva, senza più la paura della guerra, eravamo finalmente liberi!” Il padre era professore all’Università di Belgrado e la madre, giornalista, la aiutava con la lingua, parlando al telefono con gli italiani che non conoscevano l’inglese, cioè la maggior parte, precisa. L’Italia era  bellissima e lo è ancora, ma di questi tempi ha i suoi problemi. Come la Serbia, ci spiega: “Ci sono tanti cittadini che non hanno soldi, che sono in difficoltà, che hanno bisogno d’aiuto. Molti non hanno una pensione. Il Governo dovrebbe innanzitutto occuparsi di loro, della sua gente, prima che degli altri, prima che dei profughi. È stato tutto un inganno: ci hanno dato il contentino, ci hanno fatto credere di avere più soldi da spendere ma, in realtà, non hanno fatto altro che darci le carte di credito per farci indebitare. Io non la uso, preferisco i contanti, ma non li ritiro all’ATM, sennò devo anche pagarci le commissioni, vado in banca e aspetto il mio turno”.

Poi cambia discorso: è disponibile a darci qualsiasi consiglio per il nostro viaggio e lo fa. Ci mostra come funziona il WI-FI pubblico e dove acquistare una sim card a prezzi d’offerta, ci suggerisce una taverna tipica di Belgrado, l’autobus da prendere e anche la fermata a cui scendere, davanti alla sede della RTS Radio Television of Serbia. Quella bombardata dagli aerei NATO nell’aprile del 1999, sotto la quale c’è ora il monumento dedicato alle 16 vittime.  “Ora gli americani si rendono conto che ci hanno bombardati per niente, che avevamo le nostre ragioni. Piaccia o non piaccia alla Russia, il nostro esercito è potente” ci dice Maja. Ma a ottobre, da Mosca, sono arrivati a Belgrado 6 aerei da combattimento MiG-29 modernizzati e poche settimane fa è stato dato l’annuncio di 30 carri armati T-72С e 30 macchine da combattimento blindate in procinto di essere consegnate. Un regalo dei russi. Il presidente serbo Aleksandar Vučić e quello del Kosovo Hashim Thaçi stanno tentando in queste ore di risolvere, ancora, l’aggrovigliata questione. Sul tavolo ci sono un paio di territori da scambiarsi ed un complesso minerario industriale particolarmente fruttifero… Compriamo a Maja le due cartoline sbiadite per 500 dinari serbi, le auguriamo che il suo sogno si realizzi: ancora qualche anno, ci spiega, quando la bimba sarà in grado di capire e di accorgersi delle cose, comprerò un’altra Renault Clio e partirò con lei per un viaggio in Italia. Ci sorride e ha degli occhi bellissimi. Vi prego, aggiunge prima di salutarci con tre baci, non andateci, in Kosovo. “È pericoloso: stiamo solo aspettando la green light dagli USA. Entro una decina di giorni lo bombarderemo”.

In Kosovo, alla fine, ci siamo andati e, salvo un paio di raffiche di mitra sparate dal blocco stradale fuori Pristina, l’accoglienza è stata più che ottima…

Pezzo a cura di Riccardo Allegro

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