“Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero. Ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo…”
Pochi giorni fa mi è capitato di leggere un articolo che raccontava la vita-non troppo-fantastica di un critico gastronomico del New York Times.
Mi ha fatto sorridere molto la parte in cui Pete Wells, questo il nome dell’uomo dalla penna che scotta, dice che da quando fa questo mestiere la sua vita è totalmente cambiata.
Racconta di camuffamenti per non essere riconosciuto, travestimenti degni da agente segreto, con tanto di barba, baffi e occhiali finti. Non annota nulla sul taccuino, gesto che fa tanto figo, ma è lo smascheramento palese, quindi meglio far finta di mandare un messaggio o andare damemoria.
Ogni volta cerca di diventare qualcun altro per non essere trattato da “critico”, cosa che renderebbe scomodo e poco veritiero il suo giudizio. Mangia fuori cinque volte a settimana, prima di scrivere una recensione va nello stesso ristorante tre volte per accertarsi che le sue percezioni iniziali siano reali e solo dopo decide come cucinare il pezzo.
Avere il potere di portare in auge o mandare in rovina un ristorante è cosa da pochi, per pochi, in più se questo ingrato compito viene svolto per il giornale di punta della città più cosmopolita del mondo, ecco che il ruolo si complica.
Si prende una bilancia e se su un piatto vengono messe le parole per raccontare l’esperienza, sull’altro c’è il destino dell’attività che l’ha realizzata e se conoscete il detto “la penna ferisce più della spada” avete già capito dove voglio andare a parare.
La sua rubrica è la più letta per quanto riguarda i ristoranti importanti.
Il suo metro di giudizio passa per l’assegnazione di stelle, da una a quattro, alle quali corrispondono un “buono”, “molto buono”, “eccellente” e “straordinario” e per questi casi il complimento è servito. Se invece le stelle non si vedono, non necessariamente ci si troverà davanti ad una disfatta, semplicemente racconta Wells, non sono necessarie per rappresentare un tiepido “normale”.
Lui di ristoranti ne ha stroncati ben pochi.
E per stroncatura intendo, la disfatta psicologica degli Chef e conseguente perdita di prenotazioni. Soldi che sfumano come il vino in pentola, insomma.
Sembra facile puntare il dito contro un essere umano che fa delle parole il suo giocattolo più importante, è fin troppo semplice pensare che chi sa raccontare una sensazione si lasci prendere la mano e si dimentichi di quelle che potrebbe provocare negli altri.
Badate bene che dire una bella bugia, messa giù con la sintassi corretta, i congiuntivi al loro posto senza errori grammaticali paga di più che dire una brutta verità. Momentaneamente.
Se il concetto tende alla negatività nessuno baderà alla forma, quello che ne rimarrà è che chi ha scritto quel giudizio è fondamentalmente uno stronzo. Stop.
Io personalmente apprezzo chi mi sa raccontare le cose come stanno.
Sarà perché è nel mio stesso stile di pensiero e di scrittura, sarà perché il nomignolo Satana inizia anche a piacermi, sarà perché le belle bugie non mi fanno mangiare e bere bene.
E poi se c’è chi si merita un applauso, io sono quella che lo fa partire.
Il conto, grazie.
Ps: la citazione iniziale è tratta dal film che meglio racconta il rapporto tra critico e artista… Indovinate qual è!