Il bambino che maledisse Dio è una perla da cogliere, un libro denso di significati e sarcasmo e agile nell’andamento. Un bambino che non trova risposte adeguate nel Dio che gli hanno propinato, adulti che non sanno affrontare la vita reale ma si nascondono dietro regole e teorie lontane. La vita vissuta permea questo testo in grado di restituirci personaggi che faticherete a dimenticare.
Nel profondo di me stesso, ammetto che Dio non ha creato la mia infelicità. Sono io che l’ho accettata per essere libero, ma all’ignoranza preferisco la libertà nella sofferenza. Dio ha creato la luce, ma io ho la libertà di aprire e chiudere gli occhi. Dio non aveva previsto ciò e so bene che se io uccidessi il giovane Bleupré, questo sarebbe la più grande prova della mia fede, poiché l’intelligenza che mi ha donato Dio non riposa su altro che sulla mia capacità di negarlo.
Francia, all’indomani della seconda guerra mondiale, un bambino guarda il mondo attraverso il filtro degli adulti più vicini: Pépé (il nonno), il padre, la madre, la zia e le persone con cui entrano in contatto. Quello del bambino è uno sguardo sarcastico e disincantato, ma anche combattivo e profondo.
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Ad occupare il pensiero del bambino è soprattutto Dio, impostogli in famiglia ma incoerente nel mondo, incapace di dare risposte, assente quando conviene e presente quando deve ordinare e infierire.
Il nonno è un protestante socialista, la madre una fervente bigotta, mentre il padre un ebreo polacco comunista: alla fine risulta il padre la figura guida, con il suo desiderio di fratellanza umana che travalichi la religione, perché la religione divide attraverso le sue rigidità, superstizioni dannose, chiusure insensate.
Le situazioni quotidiane, ma anche i grandi accadimenti appena passati, dimostrano l’impossibilità di affidarsi alla religione, perché Dio non è in grado di dare risposte e quando pretende di darne non solo non soddisfano, ma sono irritanti. La madre continua a leggere la Bibbia senza sosta, la cita come fonte assoluta di verità e il bambino, che ha nelle orecchie la parola del Signore, non ci si trova, anzi si incazza perché le incoerenze riscontrate nella vita reale sono mastodontiche.
Ma ancor più importante è la sensazione di fondo, o forse si può parlare di vera e propria constatazione: quando non c’è Dio si sta meglio. Ecco la potente verità sottesa a tutte le considerazioni ed esperienze, ecco la conclusione pregnante a cui arriva il protagonista, ecco dopo tante parole e regole cosa rimane di Dio: si è fatto parola, ma parola che porta con sé infelicità.
Non è solo Dio a venire smascherato dalle riflessioni del bambino, ma anche gli adulti con le loro ipocrisie e debolezze. Il nonno che tende a dipingersi coraggioso ma incapace di affrontare i potenti; la madre tanto devota alla divinità e così poco incline alla famiglia; il padre comunista ma incapace di comprendere gli operai poiché il suo sogno stenta ad orientarsi nella realtà (pur rimanendo la figura di riferimento e di gran lunga più positiva del libro). Ma anche il maestro rigido nel punire i figli dei poveri in modo da non avere grane, o la zia sopravvissuta all’olocausto ma capace di assolvere il tedesco che è stata gentile con lei per tornare sicario con gli altri.
Ascoltando mia zia, penso a quelli che pretendono che salvando una sola vita si salvi l’umanità intera. Mi interrogo a questo proposito. Kumquat, che ha salvato la vita di mia zia, ha anche ucciso migliaia di persone. Non ha per nulla salvato l’umanità e, senza alcun dubbio, se solo avesse potuto, avrebbe ucciso molti più ebrei. Un assassino che salva un uomo resta un assassino. E siccome le sue vittime non sono più qua per dire il contrario, egli trova ogni tipo di testimone per parlare al posto loro e dire delle belle parole. Ma non serve a nulla.
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Non è solo Dio ad essere inadeguato, ma anche la creatura eletta non dà sfoggio di grandi qualità pur mascherandosi dietro pretese tutte teoriche. C’è un grande senso di praticità che scorre lungo tutto il libro, uno sguardo disincantato rispetto alle teorie che non trovano sbocco nei gesti quotidiani, sia grandi sia piccoli. É la vita nel suo compiersi a essere reale più di qualsiasi giustificazione agognata. Non si vive di belle idee, si vive nel rapporto con le persone e per farlo al meglio è più costruttivo un sogno umanitario piuttosto che regole dettate da sommità nascoste o da verità assolute (non solo divine).
Si tratta di un libro agile, scandito da capitoli brevi che si concedono il lusso di una certa indipendenza e il pregio di ricollegarsi ad un unico discorso. Personalmente non amo i capitoli brevi, preferisco sproloqui logorroici, ma devo dire che il gusto e la pregnanza di questi capitoletti lasciano un retrogusto saporito. Interessante poi l’idea di far partire molti dei capitoli dalla descrizione di un elemento d’arredo della casa, oltre a mantenere compatto il racconto regala una sensazione di vicinanza alla vita del protagonista. Il tutto condito con un sarcasmo costantemente presente, con la giusta cattiveria e virante a tratti verso l’ironia.
Credo che Il bambino che maledisse Dio sia una piccola perla da raccogliere, ci dona una galleria di personaggi niente affatto di passaggio, una serie di riflessioni ricche di conseguenze e un sottofondo di vita impregnato di significati e denso di emotività.
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