La bastarda della Carolina - Dorothy Allison

La bastarda della Carolina – Dorothy Allison

La bastarda della Carolina di Dorothy Allison narra l’America dei white trash vista dall’interno e raccontata senza pudore alcuno per smascherare la verità dove si era già imbellettata, non senza particolari autobiografici.

Il grande romanzo americano

“Mi hanno sempre chiamato Bone, ma il mio nome è Ruth Anne. È il nome di una delle zie, la più grande, zia Ruth. Mia madre non protestò quando me lo diedero, perché sostanzialmente non c’era.”

Ormai va avanti da anni la discussione su quale sia, ammesso che esista, il grande romanzo americano, cioè quell’opera letteraria in grado di raccontare l’antropologia del popolo riunito sotto la bandiera a stelle e strisce.
La discussione, di per sé abbastanza tediosa, ha un grandissimo pregio: portare un focus ben chiaro su romanzi che di fatto raccontano l’americanità. Ma se un romanzo che racconta un popolo sarebbe difficile da individuare per una nazione grande quanto l’Italia, pensate quale difficoltà immane si troverebbe di fronte chi cercasse in una sola opera di rinvenire un’antropologia complessa e stratificata come quella americana.

A mio modo di vedere ci sono due grandi scrittori che in qualche modo hanno inventato uno stratagemma per avvicinarsi il più possibile a questa grande impresa: Philip Roth e Thomas Pynchon. Gli autori, rispettivamente di Pastorale americana e Mason e Dixon, hanno infatti disegnato caratteri talmente generali, archetipi si potrebbe dire, soprattutto per Pynchon, in cui è possibile riconoscere allo stesso tempo caratteri molto specifici del popolo americano.

«Quando penso a quell’estate – a quando dormivo dalle mie zie o a casa mia, al profumo del collo di mamma quando si chinava per stringerci al buio, al suono della risata di Little Earle e al rumore del tabacco di nonna che atterrava sul terreno arido, alla musica country che risuonava leggera dappertutto, che apparteneva alla sera quanto i grilli e la luce della luna – mi sento di nuovo al sicuro. Nessun luogo mi è mai più sembrato tanto dolce e sereno, nessun luogo mi è più sembrato casa

Discorso diverso varrebbe per Don De Lillo, ma non voglio ammorbarvi con una discussione su quanto io lo ami, almeno non in questa sede.

La bastarda della Carolina di Dorothy Allison

Altro discorso, tendente a tutt’altra letteratura, vale invece per il libro di cui scrivo oggi e che si può (molti critici americani lo hanno fatto) a buon diritto candidare alla palma di grande romanzo americanoLa bastarda della Carolina di Dorothy Allison.

Libro pubblicato in America nel 1992, ma uscito solo quest’anno in Italia per Minimum Fax, La bastarda della Carolina è un opera divisiva e corrosiva. Basti pensare che alla sua prima pubblicazione il libro venne messo al bando da molte scuole per la sua crudezza, ma viene molto facile pensare che l’intento fosse quello del vecchio detto andreottiano “i panni sporchi si lavano in casa”. Caso che diventò oltremodo clamoroso quando Stephen King e sua Moglie Tabita decisero di acquistarne delle copie per distribuirle gratuitamente perché fosse letto da quante più persone possibile.

«A volte, quando alzavo lo sguardo sulla faccia rossa di Glen e sui suoi occhi in fiamme, mi convincevo che il vero motivo per cui mi picchiava non aveva niente a che spartire con ciò che facevo. Il vero motivo ero io, la mia stessa esistenza, quel che ero ai suoi occhi, e ai miei. Io ero il male. Certo che lo ero.»

Ne La bastarda della Carolina compare un carattere forte americano che non esita a mostrarsi in tutta le sue aperture positive o negative, ma in questo libro c’è una grande differenza di narrazione rispetto agli altri: qui a parlare è una donna scritta da una donna.

“Cos’è una vergine delle Carolina? Una ragazzina di dieci anni che corre molto forte.”

Dorothy Allison dà vita a una ragazzina senza identità certa e senza padre che attraversa l’America degli anni ‘50 tra violenza, soprusi e donne che cercano di salvare la situazione.

Sarebbe poco però dire una donna scritta da una donna, bisogna invece parlare di come il libro sia scritto da un punto di vista totalmente personale e aperto, tanto da essere in alcuni punti terribilmente coinvolgente. Non c’era ricerca di un disegno mentre il libro veniva scritto, c’era solo estrema verità. Ovviamente una verità singolare che però così schietta diventa immediatamente oggettività e universalità, quindi diventa una grande opera che racconta una grande fetta di americani.

Dorothy Allison

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L’America dei white trash vista dall’interno

La vicenda si svolge appunto in South Carolina dove abita Bone, soprannome che diventerà il suo unico vero contenitore di identità. Bone nasce in una famiglia se non povera diciamo non proprio florida, dove gli uomini bevono e fanno a pugni e le donne cercano di cucire le pezze che tengono in piedi esistenze così disgraziate da essersi fatte dimenticare oltre che dallo Stato anche da Dio.

La mamma di Bone, in particolare, è una donna forte ma che con figli e senza marito ad un certo punto è costretta ad innamorarsi (o forse l’amore almeno quello fisico è l’unica cosa vera della relazione) di un balordo della zona, ricco di famiglia ma spiantato per via della sua incapacità di mantenere un impiego per più di due settimane.

Le storie si intrecciano e tutte toccano l’anima di Bone profondamente. La ragazzina cresce coltivando un sentimento di solidarietà, da un lato, nei confronti di chi sta peggio di lei (che poi in realtà loro stanno esattamente come lei) e di profonda rabbia, dall’altro, per la gente le sta intorno, incapace di uscire dal proprio destino e dalle proprie maledizioni.

Rabbia che però si estende dalle persone più vicine al concetto di autorità e potere, sovrastrutture che bloccano un possibile cambiamento, o almeno rasserenamento momentaneo, e sembrano lì proprio a sbeffeggiare la ragazzina nei suoi disastri personali e famigliari.

“In seguito, ogni volta che sarei passata davanti alle vetrine del Woolworth, quella fame disperata sarebbe tornata, insieme alla vertigine, acuita dall’odio e dal desiderio quasi doloroso di vendicare il male ricevuto.”

L’America dei white trash vista dall’interno e raccontata senza pudore alcuno per smascherare la verità dove si era già imbellettata, non senza particolari che difficilmente potrebbero essere non autobiografici, come peraltro confermato da Dorothy Allison.

Non solo una lettura politica

Certo La bastarda della Carolina ha una lettura politica, ma su cui non bisogna, secondo me, improntare completamente l’interpretazione, perché rischieremmo di oscurare una parte importate proprio del carattere antropologico del romanzo.

Scritto in pieno governo Clinton ed ambientato negli anni ‘50, sembra a volte un perfetto racconto in prima persona di un elettore di Donald Trump, per la rabbia raccontata dalla protagonista e quella sensazione di essere caduti in una buca oscura dell’America. Ma ripeto, non forzerei la lettura politica perché rischieremmo di trovarci a far incarnare i panni del mostro al nostro avversario politico (qualunque sia).

Ultimo appunto che mi sono segnato è l’andamento musicale del libro. Tutto ad un certo punto sembra cantato e la velocità delle parole fa pensare proprio a qualcuno che, mentre racconta con lo sguardo, guarda e pensa ad altro, come si fa con una canzone che si conosce a memoria quando ci si vuole un pò estraniare da sé stessi.

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Su Andrea Labanca

Andrea Labanca cantautore, laureato in filosofia e performer, ha scritto tre album impregnati di letteratura. "I Pesci ci osservano" disco della settimana di Fahrenheit Rai RadioTre e "Carrozzeria Lacan" ospitato a Sanremo dal Premio Tenco. Ha collaborato con diversi scrittori (tra cui Aldo Nove e Livia Grossi) e ha lavorato come attore per Tino Seghal. Quest’anno è uscito il suo terzo album, “Per non tornare”, racconto noir-poetico in chiave elettro-vintage.

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