Preghiera-nell'assedio---Damir-Ovčina

Preghiera nell’assedio – Damir Ovčina

Preghiera nell’assedio di Damir Ovčina riesce a portare un punto di vista peculiare grazie ad una scrittura che si è fatta personalissimo mezzo di racconto, ma proprio per questo in grado di giungere al lettore in tutta la freschezza della sua drammaticità. Un lavoro certosino su tematiche universali per quanto ancorate a date e luoghi.

Preghiera nell’assedio di Damir Ovčina

Vado a farmi una doccia in questa terra straniera. Finirò sepolto da questo senso di estraneità.

Sarajevo tra il ’92 e il ’96 è un’ambientazione molto forte per un romanzo, non solo perché i fatti avvenuti hanno una potenza straordinaria, ma anche per la difficoltà di trovare una via espressiva efficace senza cadere in un sentimentalismo che rimane costantemente in agguato. Non che ci sia qualcosa di male nel rendere la disperazione che quegli eventi hanno causato, ma la letteratura sa veicolare altre prospettive, può trovare un linguaggio inaspettato; naturalmente quando è scritta bene. Ovčina è riuscito a portare un punto di vista peculiare grazie ad una scrittura che si è fatta personalissimo mezzo di racconto e, proprio per questo, in grado di giungere al lettore in tutta la freschezza della sua drammaticità. Un lavoro certosino su tematiche universali per quanto ancorate a date e luoghi.

Si tratta del racconto in prima persona di un ragazzo all’ultimo anno di studi che, nei giorni precedenti all’assedio, si trova ad affrontare la morte della madre per malattia. Immediatamente dopo il lutto si scatena l’inferno della guerra e lui si trova dalla parte sbagliata della città. Per inseguire l’amore, resta intrappolato nella parte occupata dai serbi, impossibilitato a raggiungere il padre e il gruppo etnico in cui lo riconoscono. Il libro vede il giovane arruolato nella squadra operativa serba, persone della fazione opposta agli occupanti che si occupano di lavori di fatica, tra cui il seppellimento dei cadaveri. Nella seconda parte del libro, il giovane diventa fuggiasco sedentario, rifugiato nel palazzo in cui ha trovato un nuovo amore in una ragazza serba che lo aiuta.

La prosa di Ovčina detta un ritmo sentimentale molto particolare. I fatti vengono riportati in modo asciutto, in un ritmo frenetico che lascia poco spazio alla riflessione. Nelle parti in cui il protagonista si ritrova autorecluso, la prosa rallenta per forza di cose nell’illustrazione dei fatti, rispecchiando lo stillicidio dei giorni, ma rimane un elenco senza scampo, un succedersi di elementi asfissiante. La guerra scoppia nella banalissima quotidianità e la narrazione non si cimenta mai in giudizi, i personaggi si autorappresentano attraverso le loro azioni e parole. Non c’è tempo per indugiare e la disumana ripetitività è la condizione esistenziale di una trappola, un susseguirsi di giorni che viene interiorizzato goccia a goccia, di mutilazione dell’anima in mutilazione.

Preghiera nell'assedio

La costruzione di una guerra

In generale non sapevo niente, né cosa c’era, né cosa non c’era, né come era il mondo nel quale mi muovevo. Ora so tutto.

Ovčina traccia una cartografia precisa e insistita di Sarajevo, dei luoghi attraversati dal protagonista, facendoci percorrere una città sospesa tra un passato di normalità e un futuro di incertezza totale, in un presente infuocato che perde i punti di riferimento proprio mentre li riconosce. I luoghi e le persone familiari al narratore si trasformano repentinamente sotto i suoi occhi, sfalsando la memoria e ricomponendo i rapporti: la scuola che ha frequentato diventa una postazione per i combattenti, un suo insegnante un militare improvvisato. Il tutto senza sapere che ne è della propria parte, quella che tale è diventata per un ragazzo che non pensava di appartenere solo ad una metà della città.

Nel lavoro che svolge il narratore, il seppellimento dei cadaveri diviene la normalità, l’assuefazione alla morte viene raggiunta in modo molto pratico. Però rimane una via d’uscita futura, sempre che un futuro venga concesso: scrivere tutto ciò di cui si è stato testimoni. La scrittura come ancora per la memoria, come testimonianza indelebile, atto di accusa perenne che inchioda i colpevoli alle responsabilità. Ma la scrittura è anche l’unica via per non perdere sé stessi, per avere una voce, per serbare traccia di chi non potrà testimoniare, ricostruire la storia delle vite andate perdute e del rapporto che si vuole mantenere con esse; non solo memoria delle atrocità, ma memoria di un popolo, degli esseri umani che lo hanno composto per farne comunità.

È utile che io sappia ciò che lui sa perché un giorno, se riuscirò a tirarmi fuori, possa in qualche modo diffonderlo. Spera che sia lui che io sopravviveremo e continueremo la nostra vita. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di sopravvivere. Visto che siamo qui, e che non ci ascolta nessuno, ci tiene a raccontarmi ciò che ha visto e sentito in questo mese, da quando è iniziato tutto. Di modo che non appena trovi il tempo, possa annotarlo di nascosto. Anche lui scrive e archivia tutto. Più persone lo fanno, meglio è. Perché un giorno qualcuno possa vendicarci se non ci saremo più. Perché tutto ciò che è successo non si dimentichi.

Anche il capo della squadra in cui lavora il protagonista scrive sulla propria agenda. Si tratta di un uomo che non sopporta le nefandezze e l’accanimento che alcuni serbi perpetrano nei confronti della popolazione musulmana, allora si fa carico di raccogliere le segnalazioni per vedere se può ritrovare qualcuno, segnalare all’autorità superiore quanto accade. La sua scrittura è, paradossalmente, più disperata di quella del ragazzo, perché, vista la palese inutilità delle tracce che compone, diventa una cronaca dell’impotenza, una fotografia del fallimento.

Il ragazzo si fa carico gioco forza di accompagnare i seppellimenti con le parole previste dalla sua religione per queste occasioni. Se ne fa carico spinto dal capo della squadra, lo fa nonostante l’esigua conoscenza dei testi religiosi, diventa inaspettatamente un prete che celebra la morte. Vista la quotidianità dei seppellimenti il suo ruolo inizia a calzargli con l’inevitabilità, la spudoratezza e la laconicità che la situazione comporta, in un tentativo di resistere all’imbarbarimento, di farsi carico di ciò che non gli competerebbe dove ormai le competenze sono annegate. Così come l’amore con la ragazza del palazzo segna la disperazione del presente e la speranza nel futuro, un aggrapparsi ai residui di anima e l’invenzione di un domani.

Damir Ovčina – Preghiera nell’assedioKeller
Traduzione: Estera Miočić

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Su Giuseppe Ponissa

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

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