Leggere Cossery é un’esperienza fisica, un’ubriacatura dei sensi ai margini di una città straniera. Lo scrittore egiziano, autore di libri entusiasmanti, è proprio nel suo capolavoro del 1948 I fannulloni nella valle fertile
, recentemente proposto in Italia da Einaudi con una traduzione splendida di Giuseppe Samonà, che dà il meglio di sé dipingendo un quadro dalle tinte oniriche, grottesche ed esoteriche avente come soggetto una famiglia completamente al maschile che preferisce l’assenza del sonno all’azione della vita.
Se i riferimenti che vengono in mente sono al Bartleby di Melville e ad Oblomov di Gončarov, ne I fannulloni nella valle fertile andiamo oltre la critica al reale ed alla società arrivando alla lode di uno stato della vita allucinogeno e misterioso, in cui perversamente ogni cosa negativa si ribalta in aspetto positivo e il sonno non resta ozio ma diventa arte della vita. La malattia e l’accidia sono le armi di eroi inermi che combattono, o semplicemente ignorano, la frenesia del progresso.
Cossery è stato, nella sua lunga esistenza, un personaggio al di sopra di ogni etichetta o categoria: egiziano che racconta l’Egitto ma in francese, francese ma che vive in albergo, donnaiolo e amico di Camus e Mastroianni passando per Genet e Queneau, provocatorio e affascinato dalla vita borderline ma non politico, al contempo firmatario dell’appello Vive l’art dégénéré a favore dei pittori banditi da Hitler, magico e surreale ma sarcastico con gli artisti.
Il rifiuto della società e della vita attiva, nel lavoro in Cossery, è un gioco di estetica dove vivere è importante nella misura in cui si riesce a restare sospesi in quella terra filosofica chiamata dormiveglia.
Il libro si apre con Serag, il fratello più piccolo della famiglia protagonista del libro, che si aggrega ad un ragazzino di strada in cerca di avventure, pagandolo per farsi accompagnare presso il cantiere abbandonato di una fabbrica poco lontano da casa sua. Serag, per uscire dal torpore in cui è reclusa la sua famiglia, vuole agire e trovarsi un lavoro.
Questa fabbrica che dovrebbe aprire diventerà poi la metafora di una scelta che non si realizzerà mai, ma di cui non ci si può sentire in colpa perché apparentemente caduta fuori dalla nostra volontà. Solo avevamo scelto la fabbrica sbagliata. La fabbrica diventa il deserto di Buzzati o il Godot di Beckett: minaccia ombrosa che non si palesa.
Ma Serag è ostinato nel cercare un lavoro, vuole evolversi ed é per questo che ha deciso di abbandonare la casa paterna, casa dedita al sonno, per avventurarsi nella città piena di pericoli.
Ed è col ritorno a casa di Serag che inizia l’incontro con i meravigliosi personaggi che ci condurranno per tutto il romanzo. Fra tutti il fratello mediano Rafik, in bilico tra il filosofo accidioso e il politico anti-capitalista, che cerca di fermare il tempo e salvare il fratello Serag e tutta la casa paterna dall’arrivo di qualunque novità e quindi da ogni possibile catastrofe che il futuro e l’avventura portano irrimediabilmente con sé. “Dio sta coi pigri. Mica coi vampiri del lavoro” dice Rafik per chiosare sul valore dell’inattività.
Se tutti gli altri personaggi della sonnecchiosa famiglia de I fannulloni nella valle fertile, compreso il fratello maggiore Galad che non si sveglia da sette anni, vivono nella realtà fuligginosa del dormiveglia senza esserne consapevoli completamente, Rafik e l’unico che conosce il valore e la potenza del non fare nulla. Rafik é quasi salomonico nel suo dichiarare al fratello Serag che parlare di lavoro è parlare di ingiustizia e malvagità: “Ebbene sappi che quando un uomo ti parlerà di progresso, vorrà asservirti”. Il fratello mediano è il personaggio più affascinante perché si muove come un eroe in pigiama.
Quando Rafik abbandonerà la donna che ama per non dover interrompere il suo riposo quotidiano, al massimo della sua liricità cadrà nel sonno, quasi preso da una febbrile spossatezza che lo riporterà nel mare calmo e caldo del sogno. Nel suo discorso di commiato, il sonnolento Rafik farà emergere la sfiducia nell’uomo e nel progresso propria di Cossery ed espressa dallo scrittore anche in tante interviste “Io ho paura degli altri uomini. Sono tutti criminali che come te vogliono sempre far lavorare gli altri“.
Oltre a Serag anche Hafez, il vecchio padre di questa squinternata famiglia, cercherà di portare un cambiamento, un elemento di novità nella storia, affidando ad una serva il compito di trovargli una giovane moglie. Ma un’ernia gigante metterà alla prova la volontà di padre Hafez e paradossalmente sarà proprio questa infermità a cui si aggrapperanno i figli, su tutti Rafik, per scongiurare l’avvento di una novità che sconvolgerebbe la pace della casa. “Si addormentarono serenamente, pensando all’ernia paterna che li salvava dal disastro.”
Il libro ha un’andatura apparentemente lenta che prima incatena il lettore nel torpore di un afoso Egitto e poi lo trafigge di sentenze anti-storiche e anti-capitalistiche che fanno de I fannulloni nella valle fertile un vero e proprio trattato di filosofia del non agire, del non fare. Anarchica ironia dell’ozio.
L’esperienza di un libro di Cossery è davvero da augurare a tutti, per la capacità dello scrittore egiziano di ribaltare ogni punto fermo della nostra visione del mondo e di donarci la sensazione piacevole che anche galleggiare sia un modo rispettabile di stare al mondo.
Finito il libro vi capiterà di immaginare Cossery fermo al bar dell’hotel La Luisiane ad osservare i passanti attraversare la vita mentre lui sorseggia con un sorriso sardonico l’ennesimo caffè.
Vi auguro di leggerlo e di poter bere caffè.