Pastorale americana, la recensione

Pastorale Americana – Philip Roth

Prendere in mano un caposaldo della letteratura e parlarne a cuor leggero può essere il lavoro più semplice del mondo, come il più difficile. Semplice perché davanti a un capolavoro si può abbassare la guardia e goderne la bellezza Difficile perché dinnanzi a un’opera simile le parole faticano ad acquisire un peso degno, distinguibile. Un po’ come una voce lontana durante un temporale.

 

E quindi, con una voce resa ancora più flebile da questa tempesta perfetta realizzata da Roth, proverò a dirvi cos’è per me, Pastorale Americana.

Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo.

Questo l’incipit del libro (qui altre citazioni) con cui Nathan Zuckerman, scrittore ebreo e alterego dell’autore, descrive il protagonista del libro. Seymour Levov e la sua famiglia, così perfetti da non sembrare veri. Così belli nella loro vita quadrata e da copertina da poterli guardare solo da lontano, quasi per paura che la loro aurea, una volta avvicinati, possa inesorabilmente crollare. Dietro questa perfezione borghese e allo stesso tempo americana, però, si cela il dramma rappresentato da Merry, la figlia di Seymour, un personaggio certosinamente disegnato attorno a quella generazione che alla fine degli anni 60 (in pieno Viet Nam, dunque) rappresentò un concreto elemento di disturbo per il governo. Una ragazzina cresciuta nell’amore e nelle sicurezze borghesi, ma logorata da un crollo degli ideali e un’insoddisfazione che la porteranno a compiere dei gesti terribili.

Pastorale Americana racconta il declino degli Stati Uniti

La famiglia dello Svedese e i suoi drammi, sono il particolare che porta Roth a fare una considerazione generale sull’America di quegli anni, una fotografia così lineare da rendere Pastorale Americana uno dei pochi Great American Novel degni di essere definiti tali (come ad esempio Furore, caro il mio Agafan). La tripartizione del libro sottolinea ancora di più uno dei significati di queste pagine, ossia il crollo inesorabile di un certo tipo di America, quella costruitasi nel secondo dopoguerra, quella mitizzata, quella buona, quella che il fidanzatino si presenta alla porta con il mazzo di fiori per la madre e parla di baseball col padre, quella che beve latte, fa sport e va in chiesa. L’America “pulita” (o bigotta, fate voi) che alla fine degli anni 60 è costretta ad arretrare, a rivedere il proprio mito fondante colpita al cuore da rivolte, rivendicazioni il più delle volte inconcludenti perché dettate più che altro da una rabbia senza risposta. Per dirla in parole povere, Pastorale Americana racconta il declino e la fine della semplicistica divisione tra Bene e Male, concetto fondante di questa nazione, con cui l’America ancora oggi sta facendo i conti.

Ovviamente, circoscrivere questo libro a una mera rappresentazione di uno spaccato temporale americano, per quanto di valore assoluto, non renderebbe giustizia al lavoro di Roth. Lavoro che trova tutta la sua più alta qualità nel racconto e nello scavo dei personaggi, talmente ben fatto, talmente profondo, talmente affilato da risultare a volte difficile da reggere. La capacità di Roth di mostrare la “carne viva” è senza pari, così come la capacità di Roth di rendere ogni aspetto di ogni singolo personaggio, una potenziale piccola ancora alla percezione che ognuno di noi ha di sé. Dietro le loro paure, i loro fallimenti, dietro ogni piccolo cedimento chiunque di noi può scorgere l’ombra dei propri. E ciò che rende questo libro ancora più grande è che Roth, nel disegnare ogni singolo personaggio, anche il più marginale, utilizza solo i loro gesti e le loro parole. Nessuna spiegazione, nessuna faciloneria narrativa. Solo una caterva di talento purissimo. 

(quanto mi sento pirla nel ribadire che Roth è un sommo. Quanta ovvietà serve per parlare di un capolavoro).

Cosa ci lascia Pastorale americana

Tutto è talmente ben congegnato che è pressoché impossibile stabilire se Roth abbia deciso di partire dalla psicologia dei personaggi per disegnare un particolare spaccato americano, oppure l’opposto. Entrambe le versioni sono vere, sono la faccia di una stessa medaglia. Il crollo inesorabile arriva per tutti, per l’America come per Seymour Levov. E allora, cosa dobbiamo trarre da Pastorale Americana? Qual è il significato? Semplice, che la vita e i suoi molteplici risvolti, sono semplicemente un’enorme assurdità. La perfezione dello Svedese (e dell’America) è solo una triste cortina di fumo. Vincere, perdere, riuscire, fallire, sono parti intercambiabili di un gioco in cui la nostra capacità di intervenire è troppo marginale per risultare davvero incisiva. E allora, per chiudere al meglio questa recensione, vi lascio con il pensiero fondante di Pastorale Americana:

Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticarsi di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati”.

Autore:Philip Roth
Traduttore:Vincenzo Mantovani
Editore:Einaudi
Collana:Super ET
Edizione:1Anno edizione:2013
Formato:Tascabile
In commercio dal:8 ottobre 2013
Pagine:462 p., Brossura
EAN:9788806218034

Il voto di Massimo - 99%

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Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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