Quella sera era uscito in anticipo, aveva bisogno di pensare, e nonostante la pioggia battente decise di allungare il tragitto scegliendo il mezzo che avrebbe fatto il giro più lungo. Salì sulla 90, fermata Lotto. Si guardò intorno e scelse un posto a caso nella fila dei sedili singoli. Staccò il tagliandino verde della lavanderia rimasto attaccato al polsino della giacca e, tossendo, se lo infilò in tasca.
Era a disagio, nonostante avesse bazzicato quella linea per anni.
Ne conosceva la ressa caotica e soffocante della mattina, il chiasso del primo pomeriggio -coi ragazzi in gruppo che urlano e si annusano, affamati di vita- e i viaggi ombrosi della sera, pieni di occhi bassi e poca voglia di parlare.
Ma non era la 90 a farlo sentire così. Erano più che altro quella camicia stretta, e quel giubbotto fresco di tintoria che lo facevano sentire fuori posto. Generalmente non dava peso ai vestiti, non si era mai interessato di moda, per questo quando gli toccava di decidere cosa indossare per un’occasione specifica, ogni singolo capo, a contatto con la sua pelle gli faceva lo stesso effetto di un campo d’ortiche.
Piuttosto che lì, costretto in abiti non suoi, avrebbe preferito restare a casa, sul suo divano, o al computer, magari a cercare l’ennesimo quanto inutile accessorio tecnologico, o un nuovo manuale di chitarra che non avrebbe sfogliato mai. Da quando viveva da solo era diventata un’abitudine: si appassionava a tutto, come fosse una necessità vitale, e altrettanto velocemente queste passioni si spegnevano. A volte, peggio ancora, collezionava interessi accatastandoli gli uni agli altri con l’unico risultato di non riuscire a concludere mai nulla. Era il suo modo di riempire il tempo senza riempirlo veramente, come se la sua vita fosse un’eterna naja, tanti giorni in fila, da occupare in qualche modo, ben sapendo che nulla di quanto fatto avrebbe avuto uno scopo.
Stava seduto con la schiena piegata in avanti, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo che cercava di mettere a fuoco una città fradicia e cupa. Nei suoi auricolari passava una selezione rock di quasi vent’anni fa, soundtrack perfetta per una domenica pomeriggio, quando il tempo scorre sempre più lento di quanto vorresti, ma che si rivelò adeguata anche per accompagnare le gocce di pioggia che si schiantavano sul vetro di un bus milanese. Benché provasse a mettere a fuoco, il riverbero dei fari delle auto creava immagini a lui sconosciute. Da ragazzino questo effetto gli piaceva molto, soprattutto quando era seduto sul sedile posteriore dell’auto dei genitori, di ritorno da qualche gita o dalla visita settimanale alla nonna, la testa appoggiata al vetro e i fari arancioni della strada che si ripetevano rapidi e monotoni. L’alone luminoso creato dalla pioggia gli suggeriva mondi fantastici, dove poter costruire tutto quello che gli suggeriva l’immaginazione. Ora, invece, quei movimenti sfocati lo inquietavano, eppure anche se con il passare degli anni l’ansia aveva preso il posto della fantasia, apprezzava il senso di sospensione offerto dal viaggio. Era bello cullarsi in quel niente che porta da un luogo all’altro, un’attesa necessaria, dove sei costretto a non fare nulla.
Milano scorreva di lato e gli sembrava di non riconoscerla. Ci aveva sempre vissuto, eppure da qualche anno si sentiva come un corpo estraneo che galleggiava in un mare sconosciuto, come una bottiglia caduta da una nave, troppo piena d’aria per andare a fondo e perdersi, e troppo vuota di contenuto per sperare un giorno di essere raccolta.
Decise di guardarsi attorno.
Due file più indietro c’era una signora anziana con la borsa della spesa sulle ginocchia, l’ombrello appeso al corrimano e un berretto di lana grossa. Il suo viso tradiva una curiosità e una lucidità pungenti. Tra lui e la signora, nella fila dei sedili doppi, vicino all’uscita, c’era una ragazza sui vent’ anni, il cappuccio e le spalle della felpa umide di pioggia. Aveva la schiena appoggiata al vetro, la gamba sinistra allungata sul seggiolino affianco, e giocava freneticamente col cellulare. La vecchia ogni tanto la guardava, ma non c’era rimprovero nei suoi occhi, solo sincera curiosità. Forse anche lei, per una volta, avrebbe tanto voluto buttare a terra le sue cose e mettersi comoda. Alla fermata di viale Certosa, quella vicino al megastore di elettronica, salirono una mamma e la sua bimba e con loro un odore caldo di asfalto bagnato, di quelli che se chiudi gli occhi hanno il profumo di vacanze estive. La piccola avrà avuto circa tre anni e dei capelli neri e ricci. Si sedettero poco più avanti, dalla parte opposta alla fila dove aveva preso posto lui. La piccolina giocava con un pupazzetto di gomma, le sue mani lo facevano correre per tutto il corrimano del sedile anteriore e, grazie a qualche strana magia, anche in verticale sul vetro. La mamma, invece, aveva gli occhi fissi sul cellulare, era parecchio giovane, pervasa da un profumo dolciastro e sembrava molto stanca. Ogni tanto alzava gli occhi verso la figlia e le sorrideva, niente di esagerato, solo quello che bastava per farle sentire la sua presenza e consentirle di vagare senza paura nei sentieri della sua fantasia. La donna aveva dei tratti somatici particolari, le labbra sporgenti erano mitigate da un naso inaspettatamente sottile. I capelli neri e lucidi e la marcata delineazione dell’attaccatura sulla fronte tradivano la presenza di una parrucca. Era bella ed elegante, nonostante le unghie posticce, lunghissime e colorate. Il profumo che emanava e i colori accesi dei suoi vestiti rappresentavano una piacevole anomalia in tutto quel grigio che li circondava. Di riflesso si guardò la camicia il giubbotto, una scala di grigi abbastanza elegante, abbastanza anonima, in tono con l’umore e con i palazzi che facevano da cornice a viale Monteceneri.
Si dice che le persone di colore abbiano il ritmo nel sangue, ma lui era convinto che più che il ritmo, avessero impresso nel corpo e in tutto il resto del loro essere un modo unico di vedere la vita, e cioè a colori primari. Fuori le macchine formavano tre colonne per senso di marcia, divise dai semafori agli incroci. Sopra di lui, illuminato dai bagliori della strada, il ponte della Ghisolfa scorreva parallelo al vialone, passando così vicino ai balconi dei palazzi che ogni volta che li guardava non poteva non chiedersi come si facesse a vivere lì e non impazzire.
La bimba si stufò ben presto del suo posto a sedere e iniziò ad ampliare il campo d’azione, per gradi, come fanno i gatti quando esplorano un posto nuovo. Piano piano, sedile dopo sedile, iniziò a far passeggiare il pupazzo per tutto il pullman. La madre la controllava a distanza. Lui, invece, quando la piccola si avvicinava troppo alla sua zona, prendeva a guardare fuori sperando di non attirare la sua attenzione. Non c’era un motivo apparente, ma i bambini lo spaventavano. Si sentiva inadeguato, soprattutto con quelli più piccoli, aveva il terrore di farli piangere, gli mancava l’istinto, o forse era solo un eccesso di ragione. Per un certo periodo della sua vita gli sarebbe persino piaciuto essere padre, anche se non riusciva a mettere ancora a fuoco il perché. Alle volte credeva fosse un fisiologico bisogno di prendersi cura di qualcuno, altre, invece, era convinto di volerlo solo perché così dovevano andare le cose.
Sentì vibrare il telefono dalla tasca della giacca, era un messaggio.
“Ti ricordi l’ora?”
“Alle nove sarò lì, puntuale”
“Ti sei vestito bene?”
“Ho fatto quello che potevo, comunque sì”
“Sei sicuro di voler venire? Non voglio costringerti…”
Clicca qui per leggere la prima parte del racconto
Clicca qui per leggere la seconda parte del racconto
Clicca qui per leggere la terza parte del racconto (uscita 8 maggio)
Clicca qui per leggere la quarta parte del racconto (uscita 15 maggio)
Un commento
Pingback There Is a Light That Never Goes Out - Parte 4