Una giornata con il signor P.

 

I risvegli in casa erano stati sempre gli stessi, da almeno dieci anni.

Quella volta era domenica, e tutti si erano alzati un po’ più tardi del solito. Il figlio minore, più tardi di loro. Si era affacciato alla porta della cucina, aveva osservato la madre, che si esibiva in un balletto tra il tavolo, dove gli ingredienti per la torta erano in mostra come le statuine del presepe e il lavello, ingombro di verdure tagliuzzate e da tagliuzzare, per l’insalata russa.

Poi aveva dirottato lo sguardo sul padre, che nell’unico spazio libero del tavolo grattava via la buccia da una decina di patate.

Con gli occhi semichiusi, l’aria a metà fra l’afflitto e lo schifato, aveva detto: «Oh, ieri me ne sono scordato, domani parto con Luigi, andiamo a sistemare la casa, giù a Bologna. Siamo in quattro e l’affitto non è male».

Il signor P. e la moglie si erano guardati. Non c’era stupore nei loro sguardi. Di più. Il figlio non aveva dato alcuna informazione in merito, prima di quel momento. Non sapevano nulla, di case, di affitti, di università,  di facoltà.

La giornata era andata avanti come sempre. Lui aveva pensato:” ma sì, domani è un altro giorno”.

Ma stamattina, al risveglio, qualcosa aveva suggerito al signor P. che l’aria che stava annusando aveva un odore diverso. Qualcosa mancava o qualcosa si era aggiunto? Si guardò intorno e controllò. Tutto era uguale a sempre.

Il cassettone di fronte al letto era sormontato dal televisore ultrapiatto. Ma era spento.

Sul suo comodino la sveglia antica, mancante di un piedino, si appoggiava come sempre al ritratto trenta-trenta del giorno del loro matrimonio, ormai risalente a trentacinque anni prima. Per la precisione, ricorda, trentaquattro anni e sette mesi. Li contava precisi perché erano uguali agli anni di lavoro, e se quella maledetta riforma non lo avesse spostato in avanti, il trentacinquesimo anniversario di matrimonio sarebbe coinciso con la sua pensione. Pazienza, me ne farò una ragione, aveva pensato quel giorno.

La moglie era già in piedi, solerte ed efficiente come sempre. Il caffè ribolliva nella caffettiera: l’odore era già arrivato a lui. La gatta era nel suo letto di velluto imbottito, si leccava uno per uno i cinque figli che aveva partorito da pochi giorni, accoppiandosi con il gatto della vicina, per fortuna un bell’esemplare.

Niente, non trovava nulla fuori posto. Allora cos’era quella sensazione di incompiuto che sentiva nell’aria, che gliela faceva sentire mancante di qualcosa?

Alle otto varcò la soglia del suo ufficio. Ancora preda della sensazione mattutina tirò su col naso. Niente, era tutto come sempre.

L’ufficio, come un organismo, emanava l’odore dei prodotti usati dall’impresa di pulizie. Dai vetri entrava nella stanza lo stesso panorama di sempre. Aprì il classificatore che emise lo stesso stridio del venerdì che era lo stesso del giovedì. E che sarebbe stato lo stesso nei giorni a venire, fino a che quel coglione del direttore amministrativo non si fosse deciso ad autorizzare la spesa per l’olio lubrificante. Cos’erano mai, tre o quattro euro per una boccetta di olio lubrificante? Lasciò il cassetto dello schedario a stridere il suo lamento quotidiano, e finalmente si sedette alla sua scrivania. Beh, sua era eccessivo, se ne era fatto capace dopo diversi anni e dopo diverse sostituzioni da lui mai richieste. E certo, passare dalla solida scrivania costruita dagli artigiani del legno degli anni cinquanta, a quell’obbrobrio di modernariato da quattro soldi, gli aveva dato l’esatta misura di quanto quella scrivania non gli appartenesse, in nessuna forma.

Stava per pigiare il pulsante di accensione del pc, quando una porta sbattuta con violenza intenzionale e una sequela di improperi urlati a squarciagola lo avevano costretto ad alzarsi e ad affacciarsi alla porta. Che cazzo succede? Non era il solo, a stare sulla porta del proprio ufficio.

Quello che urlava era il dott. Q., il responsabile delle risorse umane. Strano che fosse lui ad urlare. E poi non solo aveva urlato, ma aveva lanciato per aria, all’indietro mentre percorreva il corridoio, la cartella e tutti i fogli che conteneva. Uno di questi, spinto da Woland in persona, gli era caduto davanti ai piedi. Lo prendo o non lo prendo, fu l’amletico pensiero. Ma no, si disse, non è roba mia, anche se leggo il mio nome in cima. Rientrò nella sua stanza, ma non riusciva a riprendere il filo delle azioni. Che stava facendo, prima dell’urlo? Non fece in tempo, di nuovo, a premere il pulsante di accensione del pc, che il cicalino interno squillò.

Normalmente si aspettava di sentire la voce gracchiante, nasale e impostata su una frequenza di molti decibel oltre il consentito della signora D. La segretaria smistatutto. Per questo tenne la cornetta lontana dall’orecchio e non sentì nulla. Non sentì: «Signor P., venga immediatamente nel mio ufficio».

Quando riavvicinò la cornetta all’orecchio, dall’apparecchio arrivava solo un fastidioso zzzzzzzzzz. Vabbè, pensò P, questi sono pazzi. E tese il dito per l’ennesima volta verso il pulsante di accensione del pc. Ma non fece in tempo a premerlo, nemmeno questa volta. La porta si spalancò.

«P. ma che ti salta in testa? Non rispondi al direttore?»

La voce della segretaria smistatutto lo aveva trafitto e abbattuto, non solo per il tono, ma per ciò che aveva detto. Il direttore? E quando lo avrebbe chiamato?

«E muoviti, dai, hai capito o devo ripeterlo?».
La minaccia, in tutta evidenza era duplice.
Il direttore rispose al suo bussare con un flebile «Avanti», sussurrato con palese sofferenza.
Il signor P. entrò e accolse l’invito, che il direttore gli porse con la mano sinistra, di accomodarsi. La cosa si faceva intrigante, pensò.

«Premetto» attaccò il direttore senza preamboli «che ciò che sto per dirle non mi trova d’accordo, ma come ha potuto constatare poc’anzi, la discussione con il responsabile delle risorse umane è degenerata. Come anche è a sua conoscenza, io qui non comando niente. Eseguo ordini che arrivano dall’alto e che non posso né discutere né collaborare a formare. Quindi…» e qui il direttore si allentò la cravatta.

Ma questo che vuole? Pensò P. Poi improvvisa l’immagine di un calendario e di quei sei mesi che sarebbero mancati alla sua pensione, e che ora si erano trasformati in due anni, quattro mesi e dieci giorni. E se? Ma il pensiero gli si strozzò in gola, mentre le gambe si facevano di ricotta. Esaminò velocemente i possibili epiloghi della convocazione.

Uno: il responsabile delle risorse umane era stato fatto fuori, e lui ne avrebbe preso il posto. Non era nelle sue corde, ma si sarebbe istruito a dovere. Che diamine, quella laurea in sociologia, presa così tanto tempo prima e mai servita a nulla, se non a essere etichettato per un bel pezzo negli anni come nostalgico della filosofia della sinistra quasi estrema, magari ora gli poteva tornare utile. Certo, aveva da aggiornarsi.

Due: il posto del responsabile delle risorse umane, fatto fuori senza alcun dubbio, sarebbe andato al signor F., e lui avrebbe preso il posto dello stesso. Era sempre un buon avanzamento di carriera, sia pure non influente più di tanto sulla pensione, dato il tempo che mancava alla stessa.

Stava per digitare mentalmente la terza opzione, e nel frattempo aveva del tutto perso il filo del discorso del direttore.

Colse un: «Fra una settimana a partire da oggi, mi dispiace».

E ora? Come faceva a chiedere al direttore di ripetere il discorso che lui aveva perso totalmente, tranne nelle ultime frasi.

«Oh, P. ma mi ascolta?».

  1. abbassò la testa e si guardò le mani. Era meglio essere sinceri.

«Mi scusi, direttore, ma mi sono un attimo distratto. Diceva?».

Che faccia tosta, pensò in un primo momento il direttore: poi però ripensò alle sue stesse parole e si disse che forse, anche lui a quel punto, si sarebbe distratto.

«Va bene, va bene, non fa niente. Senta signor P. a me dispiace, lei è sempre stato un buon elemento. Ma, come ho detto, io non ho potere in merito. Mi dispiace davvero, ma una settimana a partire da oggi lei è collocato in cassa integrazione. Per cortesia, per favore, non mi chieda nulla. Se ha un sindacato si rivolga a loro. Grazie, è tutto, può andare».

Ci volle qualche minuto, al signor P. per digerire le parole che aveva udito. Un vortice di pensieri stava facendo nella sua testa quel rumore che fanno i tubi di scarico dei lavandini quando si intasano e poi improvvisamente si liberano.

Cosa era successo? Perché  nessuno aveva detto niente? Ma soprattutto chi sapeva cosa stava per accadere? Di certo nulla era trapelato, perché la segretaria smistatutto avrebbe, come aveva sempre fatto, diffuso a più non posso ogni minima notizia che le fosse giunta all’orecchio.

Furba la dirigenza! Se qualche voce fosse trapelata probabilmente si sarebbe aperta la trafila dei ricorsi di urgenza al tribunale del lavoro, e la loro manovra bloccata sul nascere.

Comunque, quel che dovrà essere sarà, pensò, e se ne tornò in ufficio. In fondo mancava ancora una settimana, nel frattempo avrebbe pensato a cosa fare.

Premette finalmente il pulsante di accensione del pc, e si mise al lavoro.

Alle quattordici e venti, come ogni giorno, il sette barrato si fermò alla fermata davanti all’outlet Ottico Duemila, due isolati in diagonale per arrivare a casa. Le giornate si erano riscaldate parecchio, in quella fine di aprile, e il signor P. se la prese comoda. Si godette il profumo dei fiori degli alberi di tiglio che correvano, si fa per dire, lungo i bordi del viale Gramsci.

Si fermò al negozio di frutta e verdura del suo amico S., un turco mezzo trapiantato e mezzo rimasto indigeno, che vendeva primizie squisite per qualità e bellezza.

Mentre S. pesava veloce uno dei primi cantalupi importati dalla sua patria, al sig. P. tornò in mente la sensazione del mattino, e si chiese se, al suo rientro in casa, sarebbe stato assalito dallo stesso senso di mancanza.

Camminando piano, sotto un sole piacevole, stava già proiettandosi avanti di una settimana, in quel giorno in cui sarebbe scattata la sua cassa integrazione, e lui avrebbe dovuto modificare tempi e luoghi di se stesso.

Decise che non avrebbe perso tempo. Che doveva sin da ora organizzarsi, trovare l’alternativa per far trascorrere quei due anni e qualcosa che mancavano alla pensione. Poi gli sovvenne un dubbio: ma gli anni di cassa integrazione valevano ai fini pensionistici o si era beccata la più solenne fregatura che mai uomo avesse potuto architettare? Si disse che già l’indomani si sarebbe recato al sindacato. Era vitale sapere, era necessario sapere.

Un aspetto di cui non aveva chiesto conto riguardava la busta paga: avrebbe perso soldi? E se sí, quanti? Il dato non era indifferente.

Certo non aveva pesi economici sulle spalle. Il figlio maggiore si era laureato per tempo e ora faceva il medico per Emergency. Lontano, in quei paesi dove si rischiava tutto. Ma ne era orgoglioso, e tanto bastava. Insomma alla fin fine, si disse, il quadro era quasi quasi a suo favore. Più tempo per sè, per fare magari qualunque cosa gli passasse per la testa. Se invece tutto questo sarebbe andato a incidere sul momento in cui andare in pensione, allora no, non ci stava per niente. Allora sarebbe stata guerra. Guerra senza quartiere.

La busta con il cantalupo, i finocchi e le mele gli pesava un po’, e così mentre si avvicinava al portone la spostò più di una volta da un braccio all’altro.

«Qua gli anni cominciano a farsi sentire» pensò corrugando la fronte come se si fosse posto una domanda. In effetti si chiedeva se i suoi cinquantotto anni fossero già un limite, un varco da cui guardare al futuro nella certezza di essere diventato anziano.

«Sì, ma anziano che significa?» si ricordò di aver letto che in medicina e sociologia per essere definiti anziani bisogna aver superato i sessantacinque. Bene, allora sono ancora giovane.

La prospettiva non era indifferente: se era ancora da considerare alla stregua di un adulto maturo e non anziano, allora aveva buone prospettive per organizzare i suoi prossimi anni al meglio.

Alle quindici e quindici aprì la porta di casa, fermandosi un attimo a riprendere fiato: quei quattro piani a piedi con la busta pesante al braccio, lo avevano leggermente spompato. Solo leggermente. Allora gli venne in mente che avrebbe potuto finalmente occuparsi di mettere in vendita quella casa e di trovarne un’altra. Magari una villetta con giardino, dove d’estate avrebbe potuto organizzare dei barbecue all’americana, con gli amici di sempre. Magari chissà, anche qualche bella festa in onore del figlio, quando sarebbe tornato dai luoghi lontani in cui viveva e lavorava. Ci avrebbe pensato più tardi.

La moglie non era ancora arrivata, ma come sempre, trovò il comitato d’accoglienza: la gatta e tutti i cinque cuccioli dietro. Inseguito dalla banda pelosa, arrivò in cucina, posò la busta sul tavolo e si affrettò a riempire la ciotola di Patou, la gatta, con il patè al salmone e trota che tanto le piaceva. Sistemò frutta e verdura nei loro cestini, e corse in bagno a lavarsi le mani. Aveva dimenticato le salviette di amuchina, con cui si disinfettava le mani periodicamente durante la giornata, e ora se le sentiva sporche e infette.

Alle sedici aveva concluso le incombenze di routine, compreso il cambio d’abito: dalla tenuta abito grigio e cravatta al jeans e maglietta. Qualche volta passava direttamente alla tuta, ma solo quando sentiva di avere energie a sufficienza per farsi una corsetta: da casa al parco, tre chilometri andata e ritorno. Non era tanto, ne era consapevole, ma meglio di niente.

La moglie sarebbe rientrata alle diciassette, come sempre. Aveva parecchio tempo a disposizione, e si mise subito al lavoro al computer. Aveva intenzione di trovare ogni informazione utile alla sua causa.

La ricerca fu facile e veloce, la soluzione soddisfacente. La cassa integrazione non influiva in alcun modo sulla pensione. Considerato poi che a lui mancavano quei due anni e quattro mesi, in pratica gli avevano anticipato il pensionamento.

«Il mondo è mio» pensò chiudendo il pc.

Gli era venuta fame. Tipico effetto della soddisfazione ricevuta dalla notizia. Andò in cucina, aprì il frigo alla ricerca del contenitore con il coperchio arancione dove la moglie riponeva, ben avvolti nei tovaglioli di lino bianco, i suoi tramezzini preferiti: pollo e funghi. Poi  tornò al pc, e iniziò una ricerca tra agenzie immobiliari: voleva farsi un’idea del mercato, capire a quanto avrebbe potuto vendere la casa e quanto gli poteva servire per acquistare la villetta con giardino.
L’offerta era vasta, la domanda risicata. Case come la sua, avevano poco mercato. Valevano poco. I quattro piani senza ascensore pesavano come macigni sulla bilancia della valutazione. A conti fatti, ammesso che fosse riuscito a venderla, per acquistare la villetta con giardino gli ci voleva almeno un’altra quantità di danaro pari al valore della sua.

Concentrò la ricerca sugli affitti: gli era venuta l’idea di acquistare la villetta e di pagarsi il mutuo con i canoni di affitto. Scaricò un programma di quelli che calcolano i piani di ammortamento e il risultato non era un granché, ma era fattibile. Bene, pensò, aveva tutti gli elementi che gli servivano: appena iniziava il periodo di cassa integrazione, si sarebbe messo all’opera. Per il momento poteva dare la notizia alla moglie.

Solo in quel momento si accorse che si erano fatte le diciotto e la moglie non era rientrata. Cercò di ricordare se al mattino gli avesse detto qualcosa a proposito, qualcosa che gli era sfuggito mentre era distratto dalla sensazione di mancanza che aveva sentito svegliandosi. Niente, non gli veniva niente in mente, ma non significava che lei non gli avesse detto niente. Magari lo aveva avvisato che faceva un po’ di straordinario in ufficio; o forse gli aveva detto che aveva qualcosa da fare con l’amica di sempre. L’attesa e i dubbi gli fecero tornare un languorino allo stomaco, e mangiò un altro tramezzino.

Patou la gatta venne a ricordargli che doveva riempire la ciotola: allattava cinque cuccioli, lei, aveva bisogno di mangiare. Andò sul balcone a controllare la lettiera. E fu lì che si accorse dell’assembramento di gente. Tutti intorno a qualcosa che giaceva a terra.

In quel momento si fermò l’ambulanza. Rimase ad osservare: uno dei paramedici che apriva il portellone posteriore, ne estraeva la barella con le ruote che si aprivano in automatico quando toccavano il suolo. L’altro con bombole e arnesi vari che si faceva strada nell’assembramento. Quando la folla si allontanò la vide: la figura che giaceva a terra era sua moglie. Vide il soprabito azzurro che lui stesso le aveva regalato imbrattato di sangue; la testa scomposta come si trovasse fuori linea rispetto al collo. Era paralizzato dalla visione. Sapeva di dover correre giù, di dover fare in volata i quattro piani di scale, ma non un muscolo rispondeva ai comandi. I paramedici avevano iniziato la manovra di rianimazione, bloccato la testa con il collare, intubato. Lui guardava esterrefatto e cercava di gridare. Voleva avvisarli, dire: «È mia moglie, per carità salvatela, sto arrivando» ma il respiro lo aveva abbandonato e il cuore si era fermato.

 

 

Su Chiara Francesca Pellicoro De Candia

Nasce a Taranto, ma vive a Gioia del Colle. Sposata, da qui il doppio cognome che le piace proprio, tre figli. Ha sempre sofferto della sindrome del dover essere, che non esiste ma riassume bene la sua personalità e le sue scelte, perché mentre una parte di lei esercitava la professione di avvocato, l’altra parte continuava a scrivere e a sognare di diventare una vera scrittrice. La produzione è sempre stata cospicua ma tenuta al caldo in file e cartelle. Fino a quando una rivolta, ben organizzata dai suoi personaggi, l’ha costretta a uscire allo scoperto. Parecchio narcisa, lo si capisce da questa minibio narrata in terza persona. Se voleste sapere cosa ha scritto, qualche notizia la trovate sui social. Basta digitare il nome completo. Le piace tantissimo discutere, soprattutto su un interrogativo irrisolto: perché il mondo è così affollato di cretini? Non ha mai letto un romanzetto rosa, perché durante l’adolescenza i suoi miti erano l’Oriana e Edgar Allan Poe. ( Personalità contorta? Sono d’accordo). E come si dice qui in Puglia: mè, avast mò.

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