Niente è come sembra

Fatto.
Dall’occhio destro vedo solo ombre.
L’ombra della finestra serrata da sbarre strette che neanche ci passa una mano, in mezzo ai quadrati. Tipo carcere? Peggio. Perché non è stata un’autorità a incarcerarmi. L’occhio sinistro credo sia ormai perso. L’ultima volta mi ha colpito – mioddio! Che fantasia perversa! – con un peluche di Snoopy che portavo sempre con me. L’ho visto mentre con il taglierino lo sventrava del suo morbido cotone e lo riempiva con biglie di vetro. Il pensiero che volesse usarlo su di me mi ha sfiorato, ma era disturbante come il vomito di un ubriaco.

Quando ha finito di infilare le biglie lo ha ricucito: con pazienza da amanuense, punto dopo punto. E sorrideva, di un sorriso che ti saresti aspettato sadico. Invece era un sorriso come quelli che i neonati regalano alla mamma.

Poi lo ha messo in una mano e lo ha soppesato. Era soddisfatto. E infatti non ha perso tempo: aveva fretta di provare il suo nuovo gingillo. Si è alzato rimettendo a posto la sedia sotto il tavolo, senza nemmeno farne graffiare le gambe sul pavimento.

Ero seduta sul letto, le gambe incrociate e le braccia abbrancate alla spalliera piccola del letto. Ero assente, canticchiavo la mia canzone preferita come stessi pregando. Avevo capito e volevo allontanarmi il più possibile da me stessa, per- ché quel dolore non sapevo proprio come avrei fatto a fronteggiarlo. Il rumore delle biglie si è mescolato al rumore dell’arcata sopraccigliare che andava in frantumi. È stato rapido a scansarsi: lui non si sporca di sangue. Tantomeno del mio. Questa volta non mi ha medicato come quando mi colpiva con i pugni. Come se lo spettacolo del sangue che colava sulla mia faccia e quel traballare dell’osso che mi ha coperto l’occhio, lo avesse incantato. Poi lo ha detto: «Sono un artista, wow!». E se n’è andato.

Fatto.

Quanto tempo sono rimasta svenuta non saprei. Mi ha risvegliato il dolore che martellava ogni centimetro quadrato della mia testa, e scendeva imperioso fino all’inguine. Non ho capito subito perché, ma poi mi sono accorta di essere nuda dalla vita in giù. Mi sono accorta che tra le gambe ero imbrattata, anche lì di sangue e di sperma. Tanto sperma. Una bottiglia? Il manico del martello? Cosa aveva usato questa volta?

Fatto.

Quel giorno il parco era poco frequentato: poche mamme con figli al seguito, pochi single con cani al guinzaglio, pochi nonni con i nipotini. I parchi sono così: quadri di vibrante retorica familiare. Il tempo era cambiato all’improvviso, e il velo di nuvole grigio-celeste si era agitato trasformandosi in una maratona di cavalloni neri. Un presagio, l’avrei capito se non fosse che ai presagi non ci credo. Ma forse mi tradì il pensiero confortante che mi ero aggiudicata il posto migliore sotto il gazebo delle ortensie: la pioggia non mi avrebbe dato fastidio più di tanto. Così quando arrivò e si sedette, senza prestarmi alcuna attenzione, non gli prestai nessuna attenzione nemmeno io. Perché avrei dovuto? Non ero la single arrapata in cerca di avventure. Stavo bene con me stessa, il mio gatto Romeo era la migliore compagnia che potessi desiderare.

Aveva una bellezza efebica e si muoveva come una donna. No, non è una frase fatta, retorica e piena di muffa. Le gambe, accavallava le gambe come una donna, su un lato, perfettamente parallele tra loro. Non ho mai visto un uomo accavallare le gambe in quel modo. Pensai ciò che la maggioranza avrebbe pensato: è gay. Mi posso fidare. Che poi cosa significasse sto pensiero ancora adesso me lo chiedo, quando non sono svenuta.

Avevo la testa piegata sul libro di David Leavitt, immersa e quasi immedesimata nel protagonista. Non sentii i suoi passi, forse non toccava terra. Il buio improvviso del cappuccio che mi aveva calato in testa per un attimo lo scambiai per un ictus: solo un ictus avrebbe potuto farmi piombare in quel buio. Pensai esattamente questo. Ormai di giovani trentenni colpiti da ictus se ne parlava sempre più spesso.

Fatto.

Se mi sto chiedendo perché proprio io? L’ho chiesto a lui. Quando mi sono svegliata in questa stanza. Sì, perché mi aveva anche sedata. Come abbia fatto a portarmi fin qui (dalle sbarre della finestra ho capito che ci troviamo in una mansarda, un sottotetto un ripostiglio. Tutto può essere questa specie di stanza) esile ed efebico com’è, non so.

Come non so da quanto tempo mi trovo qui. Tra pugni, stupri continuati e calci, sono svenuta tante di quelle volte che davvero non lo so. Mi ha tolto l’orologio; del cellulare ho sentito lo scricchiolio quando lo ha schiacciato sotto il tacco della scarpa. Mi dà da mangiare quando gli va: pappine di crema di riso e semolino, e lì ho capito che deve avere una qualche forma di schizofrenia legata alla sua primissima infanzia. E comunque con gli incisivi spezzati dai primi calci ben assestati (si è assicurato che non potessi mordere) che altro potrei mangiare?

Ogni volta che mi porge la scodella sento il mio amato Romeo che ronfa e fa le fusa. Povero, chiuso in casa senza possibilità di uscire, senza cibo e con la lettiera ormai traboccante. Sempre che sia ancora vivo.

Fatto.

Sto valutando il mio futuro. Tutta rotta e spezzata, con l’occhio in cancrena e chissà che altro, quanto tempo ancora posso resistere? Sicuramente sono finita in quella trasmissione sulle persone scomparse. Dov’è Carolina? Un metro e sessantacinque circa, capelli rossi lunghi e ricci, occhi verdi. Indossava (questo possono dirlo solo se il portinaio ha fatto caso a cosa indossavo quel pomeriggio, ma poi a che serve?) una gonna lunga verde con grandi fiori ricamati, un maglione dello stesso colore, un giubbotto di pelle. Ecco ero io. Parlo al passato di me stessa, mi sto arrendendo all’evidenza: non uscirò viva da questo incubo. Eppure prima di andarmene in giro per l’altro mondo, vorrei sapere qualcosa. Tipo: chi è questo schizofrenico paranoide con manie ossessivo-omicide? Qualcuno si è mai accorto di quanto fosse folle? Ha una madre, da qualche parte? Un fratello, una sorella qualcuno insomma? Dove vive? Cosa fa per vivere? Non arriverò a saperlo, questo è certo. Sono allo stremo, al punto che ho pensato di trovare io un modo per farla finita. Almeno non gli darò la soddisfazione di finirmi.

Fatto.

Con il filo di udito che mi è avanzato (non lo sapevo che prendere pugni alla mascella comportasse la rottura del timpano) sento qualcosa: sono passi sulle scale. Lui  non fa rumore quando sale.

Il rumore, seppure attutito è sempre più forte. Sembrano tanti piedi ferrati. Almeno così li percepisco.

La porta comincia a vibrare, poi a scuotersi, poi a cedere. Due poliziotti in tenuta che non saprei definire hanno sfondato la porta, che è caduta alzando tutta la polvere e le particelle di sangue rappreso e di vomito che si è accumulato in quel tempo che non so. Uno dei due mi guarda e lo sguardo è quello di uno che ha visto in diretta, dal vivo, il peggior incubo della sua vita. Fa un passo indietro e inizia a urlare. Ma sono così mostruosa? Per fortuna non lo so. Dietro i poliziotti arrivano medici e infermieri con barella al seguito. Ma anche loro fanno quello sguardo terrificato. E che cazzo, penso, non è che così mi incoraggiate!

Fatto.

Oggi al parco ci sono venuta con Bobbylee. Il mio cane per ciechi.

Mi hanno detto che i medici hanno tentato di salvarmi almeno l’occhio destro, ma la cancrena si era comportata come i vasi comunicanti: i vermi avevano mangiato il meglio.

Furbi, loro.

In corrispondenza dell’arcata sopraccigliare sinistra ora ho una placca di titanio. Mi piace pensare che funga da vezzosa cuffietta.

Romeo è sopravvissuto: i gatti si sa, hanno nove vite. Non è stato molto contento di cambiare casa e città, e nemmeno di condividere spazi e affetti con Bobbylee. Ma ci sta provando.

Oh lo so, che ora la curiosità vi sta rodendo. Chi era il mostro? Che fine ha fatto?

Nessuno lo sa. Nessuno lo ha visto. Nemmeno nella stanza hanno trovato tracce.

Né materiali, né biologiche.

La polizia mi ha trovata per la puzza. Io non la sentivo. Mi ero abituata forse, o forse ero troppo rintronata per pensarci. Ma la stanza non era in una mansarda né in un sottotetto di una villetta isolata.  Era in un condominio. E chi abitava sopra (che banalità e che fortuna) li ha chiamati perché non poteva più aprire la finestra della cucina senza avere conati di vomito.

Fatto.

Sono diventata una star mediatica. Tutti vogliono sapere come sono riuscita a sopravvivere alle torture, agli stupri. Ah, per la cronaca, la mia prigionia è durata un mese. Romeo l’ha salvato il portinaio, dicono, ma sono sicura che il gatto ha capito subito di dover fare qualcosa, per farsi sentire e farsi tirar fuori. Questo mi chiedono: se ero in un condominio perché nessuno ha sentito nulla?

Se ero in un condominio, come mai nessuno lo ha mai intravisto, e ne ha potuto dare una descrizione? Hai mai urlato? Boh, chi lo sa! Il livello di ansiolitici che mi hanno trovato nel sangue bastava e avanzava a farmi credere di essere in paradiso.

Domani mi daranno il premio di donna dell’anno. Cazzo, devo dirglielo? Sì insomma, che io piscio in piedi.

Su Chiara Francesca Pellicoro De Candia

Nasce a Taranto, ma vive a Gioia del Colle. Sposata, da qui il doppio cognome che le piace proprio, tre figli. Ha sempre sofferto della sindrome del dover essere, che non esiste ma riassume bene la sua personalità e le sue scelte, perché mentre una parte di lei esercitava la professione di avvocato, l’altra parte continuava a scrivere e a sognare di diventare una vera scrittrice. La produzione è sempre stata cospicua ma tenuta al caldo in file e cartelle. Fino a quando una rivolta, ben organizzata dai suoi personaggi, l’ha costretta a uscire allo scoperto. Parecchio narcisa, lo si capisce da questa minibio narrata in terza persona. Se voleste sapere cosa ha scritto, qualche notizia la trovate sui social. Basta digitare il nome completo. Le piace tantissimo discutere, soprattutto su un interrogativo irrisolto: perché il mondo è così affollato di cretini? Non ha mai letto un romanzetto rosa, perché durante l’adolescenza i suoi miti erano l’Oriana e Edgar Allan Poe. ( Personalità contorta? Sono d’accordo). E come si dice qui in Puglia: mè, avast mò.

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