Probabilmente era vero, non era costretto. Una cena con una collega, del resto, può anche non essere qualcosa di drammatico, soprattutto se hai divorziato da due anni e non hai da rendere conto di nulla a nessuno.
Eppure lui, in qualche modo si sentiva costretto, vuoi perché lei gli piaceva, vuoi perché, quell’appuntamento lo aveva suggerito proprio lui, con i suoi modi sfacciati e piacevoli, tra una pausa caffè e l’altra. Era sempre stato bravo a corteggiare, un po’ meno a concludere, non era mai stato un cacciatore, tantomeno una preda. Quando era in buona si considerava una di quelle piante carnivore che attirano stando ferme, a cui in definitiva per cibarsi serve soltanto aprire la bocca. Si chiese se era sempre stato così o se era colpa degli anni che passano, mentre la sua mente si posò sulla sua Gibson Hummingbird nuova di zecca, appesa al muro della camera da letto. Decise di non rispondere né a lei, né a se stesso e si rituffò in quel niente così piacevole e in apparenza infinito. Si alzò e socchiuse il finestrino, l’aria resa fredda dalla pioggia lo colpì in pieno viso, si guardò intorno, respirò a fondo e, dopo aver richiuso, tornò a sedersi.
Il suo lettore mp3 stava passando qualcosa degli Interpol e la pioggia continuava a battere forte sulle lamiere arancioni. Viale Monteceneri era uno spartiacque, da una parte c’era la periferia che andava degradando verso Quarto Oggiaro, dall’altra le case si facevano sempre più ricche, in un’escalation di stucchi e stile liberty che aveva come apice l’Arco della Pace. Il ponte della Ghisolfa, in tutto questo, stava in mezzo, a demarcare con il suo granito, i rumori di clacson e i flash degli autovelox la varietà molteplice e insieme uniforme delle vite dei cittadini milanesi.
We ain’t going to the town, We’re going to the city, cosa che in effetti stava facendo lui, anche se con meno convinzione di Paul Banks.
La signora col cappello di lana raccolse il suo ombrello, la borsa e si preparò per scendere. La ragazzina, appena la vecchia le passò di fianco, le tirò un’occhiata di traverso e tirò giù la gamba dal seggiolino. La 90 stava arrancando verso il cavalcavia Bacula, mentre alla sinistra della strada, piano piano, appariva dal buio un monolite bianco che lui conosceva molto bene. Il suo liceo era cambiato in questi anni, avevano aggiunto delle luci che illuminavano le mura rendendolo ancora più imponente e, al posto del campetto dove in primavera si faceva educazione fisica, ora c’era una tensostruttura. Di quel periodo aveva pochissime reminiscenze, ma quel rettangolo di terra spelacchiata se lo ricordava bene. I palloni sempre troppo sgonfi, le “femmine-pallavolo” e i “maschi-calcio”, la porta di legno grigia che dall’esterno portava al corridoio degli spogliatoi, unico punto non visibile dall’aula professori e per questo luogo di ritrovo e di sigarette nascoste all’intervallo.
Gli tornò alla mente quel sabato di maggio del 1998, quando con alcuni membri del collettivo di cui faceva parte aveva organizzato una giornata di ristrutturazione dei locali della scuola. Ricordava Stefania, una sua compagna di classe, la sua schiena appoggiata alla porta grigia, lontani da tutto, quegli occhi chiari e bellissimi piantati nei suoi. Era come essere nuovamente lì, si ricordò della sua di voglia, e di come, improvvisamente, quel desiderio si trasformò in paura, in imbarazzo feroce, mitigato alla meglio da una sigaretta e da una battuta banale. Quel ricordo di fallimento adolescenziale gli restò attaccato addosso come la vernice fresca sui vestiti, mentre quell’enorme edificio bianco spariva dietro di lui.
Aveva caldo alla base del collo e quel poco di convinzione che lo aveva portato fin lì era svanito lasciandogli la bocca secca e una gran voglia di tornarsene a casa. Si alzò e si avvicinò alla porta d’uscita, la signora che attendeva compita che il pullman si fermasse aveva già pigiato il bottone rosso della richiesta di fermata. Prese il cellulare di tasca e cercò qualche parola per declinare l’invito e tornarsene a casa.
“Ma sì, al diavolo. Non è poi così importante”, pensò.
Cerco di formulare una scusa plausibile, ma nelle orecchie partì sorniona Godless, e quel meraviglioso miscuglio di chitarre aperte, trombe e distorsioni elettriche gli fecero dimenticare la fermata di Piazzale Lugano.
Restò imbambolato per qualche secondo, le porte della fermata gli riportarono in viso una ventata di aria fredda che ebbe l’effetto di risvegliarlo da quel pantano di pensieri. A fatica rimise in fila le idee, tornò al suo posto, si lasciò cadere sul sedile e appoggiò la tempia al vetro bagnato di condensa. Il freddo che veniva da fuori riuscì a calmarlo. La madre con gli artigli colorati lo guardò distrattamente, poi seguitò a dividersi tra il cellulare e la figlia, ormai padrona del bus. Milano continuava a scorrere davanti a lui, e anche viale Jenner, col suo annoso carico di diversità appariva anonimo. Quella sera non c’erano moschee o chiese da costruire, tantomeno l’intolleranza strisciante di un certo tipo di milanese. La pioggia aveva avuto il potere di rendere tutti uguali, tutti di fretta, sotto i loro ombrelli puntati verso casa. La 90 iniziò a percorrere strade che un tempo gli erano familiari. Piazzale Maciachini era il solito crogiuolo di auto e clacson, una di quelle piazze in cui precedenze e semafori lasciano il passo alla legge della giungla, dove chi passa per primo ha ragione. In lontananza vide il vecchio palazzo dove abitava quando era sposato. Cercò di contare i piani, per vedere se riusciva a ritrovare il suo vecchio appartamento, ma dopo due tentativi lasciò perdere, in ogni caso dal primo fino all’ultimo piano le finestre erano tutte illuminate, sicché ipotizzò ci fosse qualcuno anche nella sua vecchia casa.
Che poi fossero una o due persone, era una risposta che già conosceva e su cui non voleva tornare.
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