Sarà una citazione banale per chi in Laos c’è stato e l’avrà sentita ripetere diverse volte, ma è una buona presentazione di questo paese della vecchia Indocina; recita infatti un detto francese I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo osservano crescere e i laotiani lo ascoltano
Questa frase mi ha accompagnato nel viaggio che mi ha portato a percorrere svariati chilometri lungo le terre laotiane e a toccare marginalmente la Cambogia, e riassume perfettamente la natura di questo paese e l’indole dei suoi abitanti. E devo dire che probabilmente è proprio l’atmosfera che si respira in queste terre e che si vive attraverso gli occhi di chi le abita ciò che più mi ha colpito di questo viaggio.
Credo si riassuma tutta in questa frase e in un’immagine, che mi rimarrà impressa nel cuore a lungo. La timidezza di una bambina a cui ho regalato una mia maglietta. Mi capita, quando viaggio, di regalare pezzi del mio bagaglio alle persone che incontro. Comunque sono sull’isola di Don Khong, una delle 4000 isolette che forma il fiume Mekong nella zona meridionale del Laos a confine con la Cambogia, e incontro questa bimba. Sette anni o giù di lì (difficile talvolta dare un’età ai ragazzini del sud est asiatico. Sembrano tutti troppo piccoli e più giovani di quanto non siano, ma hanno gli occhi profondi e già vissuti come quelli dei grandi). Una ritrosia e timidezza ai limiti del normale. In sella alla mia bici accosto lungo la strada, fiancheggiata da risaie a perdita d’occhio (migliaia di tonalità di verde che solo la natura sa offrire e che la macchina fotografica non riesce a immortalare). Le allungo una maglietta e a gesti le faccio capire che è per lei.
La ragazzina scuote il capo, più volte. Gliela devo proporre tre volte prima che accetti. Afferrata finalmente la maglietta, in un batter d’occhio, senza nessun cenno verso di me, la vedo sparire verso casa sua, una capanna in paglia su palafitte piantate nelle risaie appunto. E la osservo mostrare la maglietta alla sua mamma, tutta fiera del regalo appena ricevuto. Non so ancora spiegare questa sua timidezza, riesco solo a descriverla e a riportarla così come l’ho vissuta. L’impressione è di un popolo che ha perso tanto, se non tutto, e che non è abituato a ricevere. E talvolta se non conosci il significato di un gesto, il concetto di “regalo”, non sei nemmeno predisposto ad accettarlo e a comprenderlo. Mi viene in mente una frase di un film, Noi siamo infinito, Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare. E forse tra queste terre non pensano di meritarne tanto, di affetto, di amore e di generosità senza secondi fini.La stessa ritrosia e paura l’ho vista in un’altra bambina, questa volta in Cambogia. Non ho assistito a tutta la scena, ma solo al finale. Una ragazzina che spulciava tra la spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare. Pochi metri più in là noi in una discoteca di Siem Reap (località molto turistica in quanto la base per visitare il sito archeologico di Angkor Wat): musica, balli sfrenati, alcool e divertimento. Le viene regalata una pizza. Non c’è stato modo di fargliela mangiare, nonostante sono certa che fosse affamata e che nell’immondizia cercasse qualcosa di commestibile. E allora, come si spiega questa ritrosia, come si spiega questa chiusura ai limiti del normale? Non credo si possa spiegare, capire. Si può solo assistere a queste scene. Rimangono pensieri, emozioni, domande. Nessuna risposta però. La storia di questi paesi, come il background culturale e sociale, sono troppo complessi da cogliere dalle venti pagine di una guida Lonely Planet o dai diciannove giorni trascorsi in queste terre, da turista oltretutto. L’impressione è che in queste due immagini, in questi due gesti, si racchiuda la natura di questi due popoli.
I laotiani non sono poveri come altri popoli, africani ad esempio: capita di vedere persone con gli smartphone, molte case hanno antenne paraboliche, non succede di incontrare bambini nudi per strada, senza un cencio addosso. Eppure sembrano ancora più chiusi, in un loro microcosmo non aperto al confronto col mondo occidentale. Non intendo chiuso nel senso di altezzoso, superiore. Semplicemente chiuso, impaurito, ferito.
Missioni umanitarie in Laos non mi è capitato di vederne. Nemmeno scuole ne ho viste (e mi sono chiesta cosa facciano questi bimbi durante il giorno, a parte aiutare i genitori nel loro lavoro). In Cambogia è diverso, almeno per la parte di paese che ho visto io (per lo più i dintorni di Angkor Wat, quindi sicuramente una zona ricca di turisti e quindi in parte un “microcosmo felice”). La Cambogia, rispetto al Laos, è sicuramente più avanzata, più ricca. I bambini vanno a scuola in uniforme (un retaggio inglese probabilmente), il popolo è più avvezzo ai turisti (con anche tutte le furbizie che ne conseguono) e i bambini stessi sono meno timidi, pronti a mettersi in posa se gli fai una foto.
Come in Africa i bimbi qui ridono. Un sorriso più timido, mi viene da dire, più trattenuto, forse semplicemente più di stampo orientale che non africano. Ridono come capita molto di rado di vederli ridere nei nostri paesi occidentali e moderni (ma non partirò con un’invettiva contro i figli digitalizzati e iper-connessi della nostra società). Le famiglie sono allargate e si vive tutti sotto lo stesso “tetto” (una varietà di colori di lamiere). Non c’è scelta per questi bambini, se gli va bene faranno il lavoro del padre com’è il caso di tre ragazzini incontrati su una barca durante un’escursione. Tre piccoli uomini già abituati a chiedere la “tip” (mancia) e ad arrangiarsi come possono. I loro occhi profondi, lo sguardo serio e scuro è di chi, a quell’età, ne ha già viste tante…Grazie anche alle fotografe. Oltre alla sottoscritta credits a Paola (https://www.flickr.com/photos/voltolinipaola)
e all’omonima Elisa (https://www.facebook.com/elisa.spaggiari.5?fref=ufi)
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