Paese-perduto---Pierre-Jourde

Paese perduto – Pierre Jourde

Paese perduto di Pierre Jourde racconta di un ritorno al borgo paterno, un padre morto e una carrellata di personaggi. Ci sarebbero tutti elementi per scansare il già letto, e invece sono la colonna vertebrale di un libro che sa spiccare oltre ogni stereotipo prevedibile, illuminando di luce sbilenca una realtà dai contorni fantasmatici, un borgo simulacro di sé stesso e i suoi abitanti che svaniscono accartocciandosi.

Paese perduto di Pierre Jourde

«È un paese perduto», dicono, non v’è espressione più giusta. Non ci si arriva che smarrendosi. Nulla da fare qui, nulla da vedere. Perduto forse fin dall’inizio, talmente perduto prima di essere stato che questa perdita non è altro che la forma della sua esistenza. E io, stupidamente, fin dal principio, cerco di conservarlo. Vorrei che fosse se stesso, immobile nella sua perfezione, e che a ogni istante ce ne si possa riempire.

Un ritorno al borgo paterno, il padre morto e una carrellata di personaggi del borgo sperduto. Ci sarebbero tutti elementi per scansare il già letto, e invece sono la colonna vertebrale di un libro che sa spiccare oltre ogni stereotipo prevedibile, illuminando di luce sbilenca una realtà dai contorni fantasmatici, un borgo simulacro di sé stesso e i suoi abitanti che svaniscono accartocciandosi.

Il protagonista e il fratello tornano nell’isolatissimo borgo d’origine del padre perché il secondo ha ricevuto un’eredità dal cugino. Al loro arrivo, oltre al bagaglio della morte del padre avvenuta qualche anno prima, subentra il dramma della morte di una giovane abitante affetta da tempo da leucemia. Su questi elementi si impernia il libro, producendosi in una rappresentazione implacabile e struggente di un borgo che si sta ormai ritirando su sé stesso e dei suoi abitanti da sempre isolati e avviati verso l’inevitabile estinzione.

La scrittura di Jourde tesse una tela raffinata, riuscendo ad esprimere tutta la grettezza degli abitanti, l’ironia delle situazioni peculiari, il dramma accettato degli incidenti, la poesia monca della natura, la pochezza di una vita inevitabilmente squallida. Sta proprio nella penna dell’autore la mancanza del già letto, perché la prosa si insinua scartando di continuo, come le curve di quelle strade impervie, piegandosi per ripartire, adattandosi per sviare. Una prosa che accompagna lo sguardo impietoso dell’autore, che pure lascia intravvedere momenti di malinconica poesia, ma sono attimi ingannevoli, sovrapposizione incongrua di un’anima lontana da quei luoghi.

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Un’allucinazione sfiorita

[…] Si direbbe che l’insulsaggine è il fantasma, o l’ombra dell’intensità, ciò in cui si trova la sua verità. In certe condizioni dell’atmosfera, di qualità particolari della luca, qui si può a volte annusarla, sentirla, assaggiarla quasi pura, come il sostrato del tempo. La noia non è che una delle sue più temibili reincarnazioni. Non è per noia, per solitudine che si beve, ma per la paura e per il desiderio dell’insulsaggine, si vuole assaggiarla in fondo all’alcol perché non si sa come affrontarla altrimenti.

La sostanza allucinatoria friabile di quella realtà è sostanziata dalle tre morti. Quella passata del padre che non ha mai trovato una propria legittimità nel quadro familiare, proprio per questo privato di una parola che concretizzasse la propria testimonianza, in un’inesplicabilità incancrenitasi nel tempo. La morte di una giovane che era da sempre sofferente e il cui funerale dà il via ad una carrellata di figure di quasi estinti. Quella del cugino che porta i due fratelli a cercare il fantomatico tesoro che tutti gli abitanti del borgo nasconderebbero in casa, una leggenda che si autoalimenta dell’insulsaggine di quelle vite.

I membri di questa comunità sono da sempre isolati in una società cristallizzatasi nel lato meno affascinante della ruralità. Non mancano i momenti di ironia e comicità, ma anche questi scaturiscono dalla grossolanità e dall’irrilevanza. La carrellata di Jourde è costellata da figure tragicomiche che alimentano l’illusione dello stesso narratore, la spinta a conservare nell’animo un borgo che ha sempre anelato alla sparizione, la cui tensione costitutiva ha ceduto sin dall’origine alla precarietà dell’ambiente. Jourde pratica un gioco metafisico incarnandolo in paesaggi e persone, facendo svanire gli afflati sulla pelle scorticata delle persone e i tetti malconci delle abitazioni.

Rappresentative alcune pagine finali in cui l’autore, con ironia tagliente, dedica due odi prosaiche all’alcol e alla merda, due divinità pagane che abitano il borgo. L’alcol è il pegno che ogni abitante deve pagare al borgo, anche se non in prima persona da qualche parte il conto viene sempre presentato. Se è origine di racconti mitici che sfociano spesso in situazioni comiche, nasconde la profonda disperazione che si rivela in fondo ai bicchieri, l’agonia di essere uno scarto del proprio stesso mondo. La merda invece è l’elemento dominante dell’ambiente, accettata e trattata con confidenza, una presenza costante che perde la connotazione schifosa datale dalla civiltà per assumere il ruolo di stendardo, biglietto da visita che non lascia scampo a voli pindarici.

Non pensiate di averlo già letto, questo libro ha un respiro oltre il prevedibile.

Pierre Jourde – Paese perduto – Prehistorica Editore
Traduzione: Claudio Galderisi

Voto - 84%

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Su Agafan

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

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