À la recherche du temps perdu di Marcel Proust è l’opera che regalerà per sempre all’autore francese l’immortalità fra le citazioni colte, nonché il massimo segnale di impegno intellettuale fra quanti vi si approccino alla lettura. Proponiamo due o tre dritte che possano facilitare l’approccio alla lettura di una delle opere più affascinanti e misteriose che siano mai state scritte.
Marcel Proust
À la recherche du temps perdu di Marcel Proust è l’opera che regalerà per sempre all’autore francese l’immortalità fra le citazioni colte, nonché il massimo segnale di impegno intellettuale fra quanti vi si approccino alla lettura. La Recherce però richiama a priori un impianto di comprensione, o almeno due o tre dritte che possano facilitare l’approccio alla lettura di una delle opere più affascinanti e misteriose che siano mai state scritte.
Essendo quello sulla Recherce un discorso lunghissimo, potenzialmente infinito, ci concentreremo su alcuni punti semplici ma fondamentali: Proust uomo e autore, il contesto storico in cui l’opera viene scritta, influenze e differenze dell’opera maggiore di Proust rispetto al suo tempo.
La prima riflessione da fare è quella sull’autore della Recerche, scrittore che fino alla stesura della sua opera magna non era stato particolarmente prolifico: pur contando nella sua carriera articoli di giornali, saggi, oltre ad altri romanzi.
La Recherche parte da un impulso personale stringente, quasi soffocante. È un punto di distruzione col passato e insieme di riconciliazione. Tutta la sua precedente opera viene bollata da lui stesso come scadente: la Recherche inizia una nuova fase, il ritrovamento del passato appunto.
La paura è quella della morte, non della morte fisica, di cui tutto sommato Proust si cura poco, la perdita di cui si preoccupa l’autore francese è quella della memoria di sé stessi, delle proprie tracce. Potremmo dire che Proust sente la necessità di ritrovare le “mollichine” distribuite lungo il percorso, dopo essere arrivato ad un punto di smarrimento totale.
Lo smarrimento non è metafora, o invenzione poetica, ma una precisa malattia che colpì l’autore francese e che degenerò proprio durante la stesura della Recherche. L’asma, che fin da giovanissimo tormentò Proust, non migliorò col tempo anzi, nel suo aggravarsi lo portò diverse volte su quel confine tra vita e morte da cui si intravedono tutti e due i mondi. Questa condizione ovviamente influenzò la Recherche. Giovanni Macchia arriva a dire che la Recherche “è l’opera di uno scrittore che ha visto il legame tra la malattia e la morte, e che ha spiato con amorevolezza sublime il giorno in cui la malattia prende il sopravvento sul corpo”.
Tempo e memoria
Gli accostamenti, per epoca e per temi, ovviamente rimandano a Svevo e Kafka, anch’essi (Kafka) autori fragili o che hanno fatto della malattia (Zeno) la struttura dell’opera. Fu però un aneddoto a dare l’impulso decisivo all’opera: a causa di una caduta durante una passeggiata Proust subì la perdita della memoria a breve termine per qualche giorno, circostanza che stimolò la sua teoria sulla memoria e sul tempo.
Proust a seguito della caduta faticò a ricordare anche notizie fondamentali della propria vita, eppure sorgevano all’improvviso alcuni ricordi inaspettati, involontari. La cosa che sorprese maggiormente lo scrittore fu che questi ricordi sorgevano spontanei, involontari, non dettati da un richiamo logico, senza alcuna connessione col tessuto temporale del momento, a volte solo influenzati da elementi accidentali che ricordano l’attimo in cui sono stati fissati. Questo convinse Proust che una parte della coscienza sopravvive anche alla nostra volontà, alle nostre decisioni e che la sovrapposizione temporale di due eventi, causata da fenomeni esterni e casuali (un odore, una movimento, un inciampo) sia avulsa dalla volontà personale e dalla logica del tempo.
Quello che vediamo è una piccola parte di noi, c’è qualcos’altro che potremmo scoprire per caso, involontariamente.
“E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine inzuppato nel tiglio che mi dava la zia […] subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori”
Da questo punto che lega coscienza e temporalità nasce l’avvicinamento a Henry Bergson, cugino di secondo grado di Proust anche se non esistono evidenze di un’eventuale frequentazione. Il tempo della coscienza in Bergson si materializza nella durata, nella percezione, ma soprattutto ha qualcosa di organico. Per Bergson il tempo non è più lineare e meccanico come vorrebbe certa tradizione meccanicistica, bensì è organico, eterogeneo, non controllabile.
Nella scrittura di Proust il tempo diventa non solo organico, ma si allunga e diventa qualcos’altro. Il momento non solo rimane accidentalmente legato alla memoria (senza volontà), ma può sopravvivere alla volontà di ricordarlo. Nel riaffiorare però succede qualcosa di metafisico, di forte e magico: il tempo rivive e ritorna sui suoi passi.
Il celeberrimo profumo della madeleine,una volta ritornato alla luce, non è più un ricordo, è realtà, presente e attualità. Cosa implica? Che il tempo si è sovrapposto, accavallato, più tempi si sono sommati insieme. “Attraverso il ricordo del gusto della madeleine intinta nella tisana, gli si è fatto di nuovo presente uno stato dell’infanzia, non come suo ricordo, ma proprio come originale. L’io di allora e l’io di adesso si fondano per un istante ardente di passione.” sottolinea Rudiger Sanfranski nell’analizzare la concezione del tempo in letteratura.
Il contesto
Nasce spontanea la curiosità di vedere cosa stava accadendo in quel periodo nel mondo, per capire quanto le teorie di Proust fossero antiquate, attuali o visionarie, rispetto all’epoca in cui viveva.
Bisogna richiamare subito una data storica fondamentale: nel 1905 Einstein aveva formulato il principio da cui sarebbe nata la così detta teoria delle relatività ristretta, quindi la sua visione soggettivistica della percezione del tempo e delle durata. Se Einstein è un punto lontano nella costellazione di Proust e probabilmente privo di interesse per lo scrittore chiuso nel suo solipsismo, altri autori appaiono in qualche modo legati pur distaccandosi dalle sue idee.
Coincidenza quasi da capogiro, Martin Heidegger, uomo distante milioni di anni luce da Proust, inizia a scrivere il suo capolavoro inconcluso Essere e tempo proprio nel 1927, data in cui la Recherche era appena stata conclusa.
Non è strano che tutti e due si occupassero del tempo nell’arco di 15 anni circa? Non è strano che il più grande fisico dell’epoca si sia occupato del tempo? E che dire di Bergson?
Ovviamente non c’è una risposta sola ma molti percorsi possibili. In un’epoca di passaggio e di stravolgimenti sociali come, la questione del tempo era diventata imprescindibile sia dal punto di vista esistenziale che pratico. Bisogna inoltre considerare la particolarità di un periodo storico in cui, grazie ai successi della rivoluzione industriale, del tempo meccanico che prevaleva su quello naturale, molti intellettuali sentirono il bisogno di trovare una definizione ontologica del tempo.
Se il problema di Einsten era “unificare” il tempo per il bisogno pratico di far funzionare gli orologi a Berna come a Mosca, quello dei filosofi era di trovare una risposta intramondana al bisogno spirituale dell’uomo che si avviava a vivere senza il tempo di Dio nella propria vita.
Qui che coincidono, solo al punto di partenza, le visioni di Proust ed Heiddeger: il tempo non è dato in sé, la nostra esistenza è la “cosa” che riempie il tempo. Ma se per Heiddeger sono gli oggetti e la cura del mondo a mostrarci “l’esser-ci” nel mondo, il nostro “essere-per-la-morte” a farci risultare autentici, per Proust il tempo non è una cosa di cui darsi cura. Anche attivando la nostra massima attenzione, la nostra massima cura, il tempo entrerebbe in noi sotto forma di ricordo in maniera totalmente casuale, senza volontà.
In questo passaggio troviamo un approccio ottimistico alla vita: la possibilità di ricordare, di rivivere rende in qualche modo la nostra esistenza infinita e perfetta, senza che possa subire le ingiurie degli accidenti del mondo.
Proust, con una certa dose di ironia:
“No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi l’esperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere.”