Se questo è un uomo. Perché legalizzare l’eutanasia – Carlo Troilo su Micromega

Sulla questione dell’eutanasia legale vi proponiamo un articolo di Carlo Troilo su Micromega. Ci è piaciuto, in particolare, il modo diretto con cui affronta alcuni temi, la schiettezza del non girare attorno nemmeno su questioni che potrebbero suscitare distanza. Perché la realtà è provocatoria più che comoda.

di Carlo Troilo *
da Micromega, 1 febbraio 2016

Come atteggiarsi dinanzi alla morte; fino a quando considerare la vita degna di essere vissuta: sono questi i due punti su cui ritengo sia necessario accelerare il cambiamento (in corso da tempo) del “comune sentire” se si vuole arrivare a parlare di scelte di fine vita, di accanimento terapeutico, di testamento biologico ed anche di eutanasia senza contrapposizioni frontali e guerre di religione.
Per evitare le accuse di “derive eutanasiche”, è giusto trattare separatamente i problemi posti dall’invecchiamento della popolazione, che comunque vanno posti con forza alla attenzione del potere politico.
Il Giubileo in corso, dedicato alla Misericordia, merita che si dedichi una primaria attenzione ai temi dei malati, delle loro sofferenze e della morte.

La paura della morte
La paura della morte è un sentimento profondo nel cuore dell’uomo. Tolstoj ha descritto come nessun altro, nel suo capolavoro “La morte di Ivan Iliic”, la paura e l’orrore che essa suscita nel cuore dell’uomo: non solo del morente, ma anche delle persone a lui più care.
Questo sentimento di paura e di assurdità é presente fin dall’infanzia nel cuore dell’uomo, tanto che per far apparire la morte come un fatto “normale” si usava ancora, ai tempi lontani della mia infanzia, portare i bambini “a vedere i morti”, talvolta costringendoli anche a sfiorare con le labbra la loro fronte ghiacciata.
Fin da bambini, dunque, siamo stati abituati a vedere la morte come un castigo o una spaventosa fatalità. Già nei romanzi per l’infanzia abbiamo visto morire gli innumerevoli “cattivi”, ma anche “i buoni”, come il piccolo Lord e la piccola vedetta lombarda.
Serve dunque una prima “rivoluzione culturale”.

La morte deve essere presentata per quello che è: il termine naturale della vita, un evento inevitabile che spesso rappresenta la fine di anni di sofferenza. Leopardi la attende come liberatrice: “Solo aspettar sereno / quel dì ch’io pieghi/ addormentato il volto/ nel tuo virgineo seno”. Ed anche un poeta a noi più vicino nel tempo, Cardarelli, la invoca con tenerezza: “Morte, non mi ghermire/ ma da lontano annunciati/ e da amica mi prendi/ come l’estrema delle mie abitudini”.
E soprattutto la morte non deve essere più vista come un fatto da combattere anche quando la gravità della malattia e/o l’età avanzata non lasciano spazio a speranze fondate ma solo al feroce accanimento terapeutico. “Accanimento”, pensando al Giubileo, è l’opposto di “Misericordia”.

Senza questa svolta – nel comune sentire e nel comportamento dei medici – non sarà facile parlare di eutanasia come d’una scelta legittima ed “opportuna”, per usare la bella espressione di Piero Welby.

La dignità della vita
La seconda “rivoluzione” riguarda una questione molto complessa e controversa: fino a che punto la vita è degna di essere vissuta.
Anche molti degli italiani favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia pensano che un intervento attivo per favorire la morte si giustifichi unicamente in presenza di una malattia che lasci solo la possibilità di una breve sopravvivenza. Il termine “eutanasia” viene quindi associato, nella maggior parte dei casi, al concetto di “malato terminale”.
Invece è necessario capire che una persona può volere la morte – anche quando la sua esistenza può ancora trascinarsi per qualche tempo – se sente che essa, in quelle condizioni, non è più degna di essere vissuta.

Il malato tormentato senza tregua da sofferenze fisiche o psichiche, e senza la speranza di guarire; la persona che dal suo male è costretta alla immobilità ed a subire tante umiliazioni; il “grande vecchio” che non ha più alcun interesse per la vita; i malati di Alzheimer, ridotti per anni a “morti viventi”: tutti costoro hanno perso la dignità della vita, anche se la loro formazione culturale, non solo religiosa, non gli consente di ammetterlo. Per tutti loro vale l’interrogativo di Primo Levi: “Se questo è un uomo”. A tutti loro andrebbe riconosciuto il diritto a por fine ad una vita che non ha più né senso né valore né dignità.
E allora, per impostare correttamente una riflessione pubblica – e dunque anche politica – sulla eutanasia, é necessario ragionare sui criteri in base ai quali le persone, nei loro diversi modi di essere e di sentire, valutano “la dignità della vita”.
Naturalmente, una riflessione di questo tipo può apparire superflua ai credenti più fervidi, per i quali la vita non può mai essere considerata “non degna” e tanto meno “disponibile”, essendo un dono di Dio, sulla cui fine solo lo stesso Dio può decidere tempi e modi.

Rispetto questa posizione, pur considerandola, da non credente, assurda (che dono è se non resta nostro fino alla fine?) e perfino crudele. Ma ricordo che i “veri credenti” (quei cattolici, per intenderci, che sono credenti, praticanti e osservanti) sono in Italia una minoranza, per cui non è giusto che il loro punto di vista divenga “obbligatorio” per tutti gli altri; e che anche molti fra i più rigorosi fra loro si concedono delle libertà perfino rispetto ai Comandamenti ed alle prescrizioni più importanti della Chiesa: in particolare, ma non solo, per quanto riguarda il ricorso ai contraccettivi.

Per questo, mi rivolgo anche ai credenti, per un dialogo civile che non dovrebbe mai incontrare anacronistici veti.
Molti dei non credenti, pur non pensando che la vita sia “un dono di Dio”, la considerano come una misteriosa fatalità e “si lasciano vivere”, seguendo le regole più comuni e le abitudini più consolidate: studiano, lavorano, si sposano, formano una famiglia, invecchiano. Quando si ammalano, accettano come fatalità anche la decadenza del fisico e dell’intelletto, non si chiedono se la loro vita è ancora degna di essere vissuta, non si pongono il problema del trauma e dei mille problemi che la loro prolungata e inutile sofferenza rappresenta per le presone care, attendono la morte usufruendo di tutte le risorse che la medicina mette a loro disposizione e considerando quasi un dovere assoggettarsi anche a terapie prolungate ed invasive in cui essi stessi non ripongono alcuna reale fiducia. Sono persone che semplicemente non si pongono il problema della dignità della vita, per limiti soggettivi di sensibilità e di cultura. Per loro la morte è “un evento” come gli eventi della natura: il sole e la pioggia, la luce ed il buio. Realtà su cui non si può influire.

Ma ci sono anche, fra i non credenti, molte persone che seguono nella vita una loro “religione laica” (i “santi laici” de “La peste” di Camus ne sono per me l’emblema): per loro la vita mantiene la sua dignità solo finché sono in grado di perseguire quei valori e di ottemperare a quei doveri che hanno posto a fondamento del loro modo di essere e di vivere.
Quando la malattia o la vecchiaia impediscono per sempre a queste persone di perseguire gli obiettivi che sono stati fra le ragioni primarie del loro vivere; quando non hanno più nulla da dire e da dare non dico alla società ma nemmeno a familiari ed amici; quando essi stessi non desiderano più vivere; quando la mente spenta ed il corpo incontinente li fanno sentire come un peso insostenibile per se stessi e per le persone che amano: allora essi vogliono poter esercitare quel diritto alla autodeterminazione su cui si sono basate le loro scelte in vita. Vogliono quel diritto alla eutanasia, a quella “buona morte” (ricordiamo sempre l’etimologia della parola) che per secoli ha rappresentato un punto fermo per i più grandi pensatori, fino a quando, con il prevalere del pensiero cattolico, si è affermato ed è divenuto opinione corrente il concetto della vita come “dono di Dio”.

Montanelli diceva – con il suo stile icastico – che vale la pena di vivere finché si è in grado di andare in bagno da soli.
Io ho vissuto il dramma di mio fratello Michele, malato terminale di leucemia, che dopo aver cercato invano una soluzione di eutanasia, si era rassegnato a vivere ancora quelle poche settimane che gli restavano. Poi, una mattina all’alba, aprì la porta finestra del terrazzo e si gettò nel vuoto dal quarto piano. Dopo, la sua badante ci raccontò che la sera precedente Michele aveva avuto per la prima volta un episodio di incontinenza. Lei lo aveva spogliato, lo aveva lavato, gli aveva messo un pannolone e lo aveva rimesso a letto. Ma Michele – un anziano scapolo riservato e pudico – non si era sentito di affrontare di nuovo, nei giorni successivi, quella umiliazione: quella che riteneva, appunto, la fine della dignità della sua vita.
Come Michele, mille malati si suicidano ogni anno, ed oltre mille, ancor più sfortunati, tentano invano di farlo.

Anche per rispetto delle loro tragedie, e per far sì che non sia più necessario il ricorso a questo tipo di “morte indegna”, è necessario un grande, pacato ed incessante impegno perché il tema della “dignità della vita” – e quello, strettamente connesso, del desiderio di porre fine ad una esistenza giudicata non più degna – arrivi ad essere compreso dalla grande maggioranza degli italiani.

Perché nella legge che legalizzerà l’eutanasia – quando verrà – essa dovrebbe essere consentita anche al malato non terminale, che rifiuti però una vita “indegna” : sia se la richiederà, essendo nel pieno delle sue capacità mentali, sia se, privo ormai di queste capacità, l’avrà richiesta, “ora per allora”, con le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (o testamento biologico).

La vecchiaia e la società
Il problema della dignità della vita si pone per lo più nella vecchiaia dell’uomo, una stagione della esistenza evocata per lo più dolorosamente da scrittori e poeti: i versi quasi rabbiosi di Guido Gozzano (“la vecchiezza/ l’orrida vecchiezza/ dai denti finti e dai capelli tinti”) erano stati preceduti da quelli angosciati di Leopardi (“A me, se di vecchiezza/ la detestata soglia/ evitar non impetro/ quando muti quest’occhi all’altrui core/ e lor fia voto il mondo/ e il dì futuro del dì presente/ più noioso e tetro…….”).
Dopo la fine della famiglia patriarcale, che almeno dava ai vecchi il riconoscimento di una presunta saggezza ed il privilegio della autorità, sarebbe tempo di ragionare sulla realtà della vecchiaia nella società moderna.

Non dimentichiamolo mai: il rapidissimo aumento della vita media porta, e sempre più porterà, ad un parallelo invecchiamento della popolazione e ad un aumento delle malattie che accompagnano inevitabilmente la vecchiaia. Già oggi gli over 65 in Italia sono oltre 13 milioni, due milioni dei quali non autosufficienti. Le persone colpite da varie forme di demenza, in Italia, sono più di un milione, per lo più malati di Alzheimer; e saranno due milioni nel 2030. Chi di noi ha visto, in un ospedale o in un pensionato, persone senza specifiche malattie se non una estrema e “cattiva” vecchiaia o malati terminali attaccati alle macchine, ridotti a “morti viventi”, non ha potuto fare a meno di chiedersi se aiutarli a compiere l’ultimo passo non sarebbe giusto ed umano. E soprattutto si è chiesto perché a ciascuno di noi è vietato dire “ora per allora”, con un testamento biologico: se dovessi ridurmi così voglio che mi si faccia smettere di soffrire; voglio morire.

Mi capita ogni tanto, per senso del dovere, di andare in visita ad un amico malato di Alzheimer. Cerco di parlare con lui, ma non risponde e sono sicuro che non mi riconosce, né capisce quel che gli dico. Qualche volta, se qualcosa lo innervosisce, dice solo rabbiosamente una parola oscena, lui che non ha mai detto parolacce in vita sua. Muto, ti guarda con degli occhi che definiresti spenti, se non vi fosse nel suo sguardo qualcosa di inquietante, una infinita tristezza.
Le analisi mediche hanno confermato che le sue condizioni generali sono ottime. Dunque egli potrebbe vivere in questa situazione per molti anni ancora, sulla sua sedia a rotelle, con i suoi pannoloni, con i suoi occhi spenti.
E mi torna in mente la domanda angosciata di Primo Levi: ditemi voi “se questo è un uomo”.

Ma oltre agli aspetti umani di queste vicende, mi sembra disonesto, in un discorso su questi temi, ignorare altri due problemi che una vecchiaia disastrosa pone – o potrà porre – ad ognuno di noi ed alla società in cui viviamo, già così lontana dai tempi felici del miracolo economico e del welfare che sembrava non dovesse mai cessare di darci certezze e conforto.

Uno è un problema oggettivo, di carattere economico, che in prospettiva ha la potenzialità di scardinare la sanità e la previdenza dell’Italia, già oggi traballanti, e che comporta per i caregiver i gravissimi problemi economici derivanti dalla necessità di farsi aiutare da una o più badanti e le impegnative e costose terapie. Problemi che saranno del tutto insostenibili quando arriverà al traguardo del fine lavoro la “generazione Fornero”, con le sue pensioni ben più misere di quelle attuali.

L’altro è un problema esistenziale. Ormai è sempre più frequente vedere persone di 70 anni che trascinano un vecchio genitore per strada o per le corsie di un ospedale. Ed è facile immaginare a quale vita di inferno siano ridotte le giornate di questi anziani caregiver.

Questi drammatici risvolti della estrema vecchiaia sono stati messi in luce da uno studio del governo francese, premessa per un importante piano nazionale contro la non autosufficienza: un problema di primaria importanza che il governo italiano continua ad ignorare. Due i dati più impressionanti: 1) I francesi che aiutano un parente anziano con vari gradi di non autosufficienza sono 4,3 milioni ed aumenteranno del 50% da qui al 2035. Più del 40% di loro soffre di fenomeni di depressione; 2) Le pensioni e le varie forme di aiuti oggi esistenti coprono solo una parte dei costi di assistenza. Mediamente, mancano da 350 a 500 euro al mese, per cui le famiglie sono obbligate ad intaccare i loro patrimoni e, spesso, a vendere (e il più delle volte, a svendere) la nuda proprietà della casa dei genitori.

In conclusione, penso che in primo luogo sia doveroso premere sul governo e sulle forze politiche perché affrontino, con misure e mezzi adeguati, il dramma della assistenza ai vecchi, specie se non autosufficienti. In secondo luogo, ritengo che dovrebbe essere lecito esprimere – senza sentirsi paragonare a Hitler e ai suoi medici sadici – l’opinione che forse, se l’estrema vecchiaia ti riduce a un morto vivente, è meglio non arrivarci, chiedendo, prima che sia troppo tardi e che il senno ti abbandoni, di poter porre fine alla propria esistenza.

A chi tocca affrontare questi problemi?
Alla politica, alla cultura, alla scuola, alla famiglia, agli opinion leader. Ma, prima ancora, ai cittadini che un giorno, fatalmente, giungeranno a conoscere la malattia e la vecchiaia e che, dinanzi alla morte, dovranno scegliere fra le soluzioni, tutte pessime, oggi concretamente possibili: una lunga e inutile agonia, per sé e per i propri cari; una delle 20mila “eutanasie clandestine” offerte ogni anno negli ospedali da medici pietosi e coraggiosi; uno dei modi atroci in cui ogni anno 1.000 malati si suicidano e più di 1.000 tentano di farlo senza riuscirvi. Quando diremo basta a questa strage degli innocenti”?

* Associazione Luca Coscioni

Su Giuseppe Ponissa

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.