la gente per bene

Francesco Dezio, “La gente per bene” – #LaReceDeiLettori

Dopo Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004), ambientato alla catena di montaggio di una multinazionale dei motori Diesel, l’autore pugliese Francesco Dezio è tornato a farsi leggere con una nuova opera, tra letterarietà e denuncia.

La disoccupazione a quarant’anni

Quello del lavoro precario era nei primi anni Duemila un tema che si cominciava timidamente ad affrontare, e Dezio ne fu pioniere insieme al Giorgio Falco di Pausa caffè (Sironi 2004), in anni in cui la parola “precariato” non era ancora inflazionata. Oggi lo scrittore ci offre un romanzo ancora più mosso e sfaccettato, nella certezza che era inevitabile uscire dalla fabbrica: non solo per la fatalità della scadenza dei contratti a termine, ma per la necessità, urgente ad una scrittura ormai matura, di indagare e raccontare il mondo sociale che c’è fuori della fabbrica stessa.
Come il precedente romanzo anche questo è raccontato in prima persona ed è fortemente radicato nel quotidiano. Ma è un’autobiografia reinventata, tra l’allucinato e il picaresco: un proletario di una città del Sud, amante della pittura e della letteratura ma costretto da una scuola classista a darsi pane studiando all’istituto professionale, spende il suo diploma di disegnatore meccanico in aziende a gestione familiare, in una via crucis di contratti sempre più brevi, di lettere di dimissioni che camuffano il licenziamento, di amicizie e inimicizie con stagisti neodiplomati ma anche con operai in pensione che continuano a lavorare a nero (perché a casa si annoierebbero o litigherebbero con la moglie). Poi il protagonista si risveglia, in un incubo: è ormai quarantenne, esperto di tecnologie obsolete, mentre arrivano le delocalizzazioni, i voucher, i cinesi, il Jobs Act.
Con uno stile via via più ellittico si racconta la fine del lavoro, in un reportage parodico dello sviluppo industriale e del tessuto economico di un pezzo di Sud. Ma è un romanzo di respiro europeo, con una lingua nervosa, sperimentalmente tesa verso il dialetto e il gergo tecnico, eppure di agile lettura, che accoglie la sfida letteraria di narrare delle politiche del lavoro neoliberiste che si sono diffuse in tutta Europa e hanno contribuito non poco allo sfaldamento della sua coesione, poiché le fughe dei cervelli sono quasi sempre storie di delusione e sradicamento che il senso di cittadinanza europea ed il cosmopolitismo dei più giovani non riescono a lenire. Il culmine dell’opera è la biografia satirica del re dei divani, Natalino Manucci, che moltiplica le sedi fino in Kentucky: un affresco, insieme amaro e divertente, dell’economia globale, dell’accumulazione capitalistica, dell’espansione illimitata dei consumi come modello culturale unico che ha colonizzato il Sud dell’agricoltura arretrata e della parsimonia, in un’accelerazione forsennata che ne preconizzava il collasso.
Come in Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014, una raccolta di racconti dedicati alla musica punk, grunge, post-punk e post-rock e corredati da disegni dell’autore), anche questo romanzo è “sinestetico” e ha un sottofondo musicale. A cominciare dalla citazione in esergo dai Nirvana di Scentless Apprentice (da In Utero): You can’t fire me because I quit: “non puoi licenziarmi perché mi sono già arreso”.

Marianna Lorusso

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