Jonahan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino

Il tema del lutto, delle conseguenze della guerra, delle difficoltà dell’amore, tutto affrontato da Jonathan Safran Foer in una maniera sublime, elegante, profonda, reale

La trama del libro

Partiamo come sempre dalla trama: Oskar è un bambino di nove anni, geniale, sensibile e complicato. Nel settembre del 2001 ha dovuto fare i conti con la morte del padre, inghiottito dal crollo del World Trade Center e ora è alla ricerca di un modo per sopravvivere a questa perdita, al senso di incompiuto sente dentro di sé e che lo fa fluttuare in maniera pericolosa tra l’autolesionismo e la capacità certosina di inventare mondi e cose che possano in qualche modo attenuare  il suo stato di tensione. Intersecata alla storia di Oskar c’è quella di sua madre, che prova a tenere in piedi i cocci della sua famiglia e della sua vita, ma soprattutto dei due nonni paterni, anche loro vittime di un atto violento, il bombardamento di Dresda, che li ha sì restituiti vivi, ma ha segnato in maniera lacerante il loro futuro. Parte centrale del libro è il ritrovamento da parte di Oskar di una chiave misteriosa appartenuta a suo padre. E la ricerca ricerca della serratura corrispondente significherà per lui trovare una sorta di salvezza interiore. 

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Mea culpa obbligatorio: sono entrato in possesso di questo titolo ormai tre anni fa e per altrettante volte ho provato ad affrontarlo, interrompendomi sempre dopo qualche pagina e relegandolo ogni volta nella pila dei libri orizzontali della mia biblioteca (quelli che, nel mio personale ordine a cazzo di cane, sono ancora da leggere). Ricordo che allora lo comprai prima di una vacanza in un’isoletta greca stimolato da un’intervista che lessi da qualche parte, e quest’estate gli ho dato l’ennesima possibilità, ovviamente cambiando isola e stato -oltre a una moltitudine infinita di cose della mia vita. Ebbene ora che l’ho finito posso senza dubbio affermare che Molto forte, incredibilmente vicino è un cazzo di diesel, di quelli che borbottano e sembrano fonfi all’inizio, ma che poi una volta lanciati diventano dei missili inarrestabili.

Un piccolo gioiello

Jonathan safran foer Ecco, bisogna superare le prime pagine, bisogna superare il fastidio che ti dà Oskar con le sue manie, la sua poca simpatia. E poi bisogna digerire il modo di scrivere di Safran Foer, un registro così unico e particolare che all’inizio ti spiazza e ti sembra quasi di girare intorno senza arrivare mai a nulla, poi però, d’incanto, i tasselli nella tua testa vanno a posto e ti ritrovi come quando sei davanti alla cosa più irresistibile, buona e succosa del mondo. Non puoi più smettere di leggere perché tutto improvvisamente diventa più vero del vero, dagli abitanti dei cinque (più uno) distretti di New York fino a quelle sensazioni che noi occidentali proviamo a spot, e cioè quando la nostra sicurezza personale viene intaccata, ma che troppo spesso tendiamo a cancellare dalla nostra mente perché la verità è che pur provandoci, non riusciamo a farci i conti.  

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Il tema principale affrontato da Safran Foer, dunque, sono le conseguenze che le guerre, tutte le guerre, hanno sugli esseri umani. Conseguenze spesso invisibili ma che sono in grado di stravolgere tutto, anche e soprattutto l’amore. Oskar non sa fare i conti con la morte improvvisa del padre, si sente colpevole perché non ha avuto il coraggio di rispondere all’ultima telefonata che Thomas Schell gli ha fatto, probabilmente rintanato sotto una scrivania poco prima che la Torre Nord crollasse. Affida così alla ricerca di una serratura la sua salvezza come bimbo e come figlio, cercando nel suo cammino per le strade di New York di dare un senso alla morte, a ciò che non c’è più e a quello che resta, come ad esempio sua madre (a tratti invisibile eppure così splendidamente presente). Alla fine ce la farà, ma come ci riesce è qualcosa che dovrete leggere, perché davvero le ultime pagine di questo libro sono roba che bisognerebbe tatuarsi addosso per quanto belle e geniali.

Molto forte incredibilmente vicino, il film Altro nucleo fortissimo dell’opera (io divido per comodità, ma in realtà è tutto perfettamente legato) sono le vicissitudini dei suoi due nonni, entrambi vittime della seconda guerra mondiale, per la precisione del bombardamento di Dresda che spazzò via tutta la famiglia di lei, compresa Anna, sua sorella maggiore nonché primo (e per certi versi unico) amore di lui. La loro relazione è basata su delle forme comunicative di compromesso, perché entrambi, dopo quei fatti, sono rimasti con la vita (e la capacità di affrontarla) spezzata a metà. La loro relazione (si incontreranno per caso tempo dopo a New York) è frutto di questo, lei con “gli occhi guasti” per non affrontare la vita, e lui, per lo stesso motivo, ha rinunciato alla parola e usa taccuini per comunicare. Lui, che si è tatuato un e un no sul palmo delle mani (perché così è più facile esprimere due concetti così imponenti) è fuggito non appena ha saputo che la moglie era incinta (del papà di Oskar), per poi tornare esattamente nel periodo degli attacchi alle Torri e riprendere col nipote un filo che (forse) salverà entrambi. Il racconto di questo rapporto è, a mio parere, il tema più bello, devastante, coinvolgente del libro. Poche immagini, letterariamente parlando, mi hanno turbato così tanto come quelle con protagonisti questi due personaggi. Più di tutte però, quella che per intenderci a un certo punto mi ha fatto venire voglia di buttarmi da una scogliera di Minorca, è la scena in cui lei scrive la sua vita, tutta la sua vita fino a quel giorno, utilizzando una macchina da scrivere priva di nastro di inchiostro. Una scena meravigliosa nella sua dolorosità, ma soprattutto letterariamente di valenza infinita, perché in poche pagine Safran Foer è riuscito a condensare il senso del loro rapporto ma in un certo modo anche il senso delle relazioni in generale, unendo con un filo rosso le macerie di Dresda a tutte quelle forze sotterranee che spesso (molto, ma molto spesso) governano in silenzio il rapporto di coppia. Insomma, veramente, e ora la finisco: questo è un libro che va letto, anche se Safran Foer è alla moda e dai suoi libri viene facile sfornare film, superate le difficoltà iniziali (che poi oh, magari erano solo mie) e tuffatevici. Verrete ripagati più di quanto potete immaginare. 

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Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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