Recensione libro Uomini e Topi – Questa novella breve dello scrittore americano è un dipinto conciso e tremendamente struggente di quello che generalmente è il destino degli ultimi. Per loro non ci sono né possibilità di scelta né salvezza. Solo l’inesorabile incedere verso un disegno già scritto
La vita degli ultimi
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1937 e tradotto da Cesare Pavese per Bompiani nel 1938, “Uomini e topi” è insieme a “Furore” una delle opere più note di John Steinbeck. Il libro è ispirato alla vita di un paio di personaggi e ad un episodio vero accaduto nel 1920, protagonisti della novella George Milton e Lennie Small due amici che vivono e lavorano nei pressi del fiume Salinas, in California. Lennie è il braccio, un gigante, instancabile lavoratore dotato di forza sovrumana ma affetto da ritardo mentale, George, la mente, si prende cura di lui evitando che si metta nei guai. Lennie è buono, ma incapace di gestire le sue emozioni e la sua curiosità, che inevitabilmente lo spingono verso gesti tanto involontari quanto violenti. George è l’unico che lo sa prendere, rassicurare e contenere, perché negli anni ha imparato a volergli bene e e perché sa che “un uomo, se lasciato solo, potrebbe impazzire”. La loro vita si spende girovagando tra i ranch della zona, alla ricerca di un lavoro saltuario come braccianti, il loro unico obiettivo è quello di rimediare una “mesata” e avvicinarsi poco per volta al loro sogno, l’acquisto di un ranch tutto loro dove poter vivere tranquilli, allevare i conigli e poter finalmente toccare con mano il frutto del loro lavoro.
Questa è la premessa di una novella breve scritta in maniera semplice (come tutte le opere di Steinbec, anche Uomini e Topi era destinato al popolo, non alla critica), ma che nasconde in sé numerosi piani di lettura e un’infinita serie di spunti. Il primo, l’auotre americano ce lo regala direttamente col titolo, tratto da un verso di una poesia di Robert Burns, poeta romantico vissuto tra il 1759 e il 1796. Il poema si intitola: “To a Mouse. On Turning Her up in Her Nest with the Plough“.
«But Mousie, thou art no thy-lane,
In proving foresight may be vain:
The best laid schemes o’ Mice an’ Men,
Gang aft agley,
En’ lea’e us nought but grief an’ pain,
For promis’d joy!».
Esattamente come per i topi, anche i propositi degli uomini sono destinati a sfumare, e le promesse di felicità lasciano il passo a un inevitabile fallimento. Nel romanzo di Steinbeck, questo concetto si fa ancora più crudo, perché si rivolge a una specifica categoria di individui, quelli che De André definiva gli ultimi e che lo scrittore americano dipinge come coloro destinati a essere travolti dal destino, nonostante la buona volontà, nonostante il loro amore per la vita, nonostante la loro bontà d’animo. In questo caso specifico, ma come detto possiamo estendere il concetto a tutti, Steinbeck si rivolge agli americani della grande crisi e della Depressione degli anni 30: isole di solitudine che, privati di tutto, provano a fare l’unica cosa che gli rimane da fare, sopravvivere.
Altro tema meravigliosamente trattato è quello, come detto, della solitudine. Uno stato di isolamento necessario perché quando si ha poco e quello che resta sono solo i sogni o la speranza di andare avanti, l’altro non è un aiuto, ma qualcosa da cui guardarsi. Per questo Lennie e George stridono, in quanto coppia, in questo mondo di uomini (e donne) soli. Lennie, soprattutto, è il personaggio che Steinbeck ritrae con con più grazia e una delicatezza infinite. Lui, l’inadatto, il condannato alla nascita, l’uomo che nell’America disperata degli anni 30 risulta essere una condanna non solo per se stesso ma anche per quelli che hanno la sfortuna di legarsi a lui. E tra questi, più di tutti, c’è George, ovvero il suo tutore, colui che proprio per via della sua grande lealtà è costretto ad accudirlo anche se Lennie risulta essere una costante fonte di problemi.
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Lennie e George, i fratelli non fratelli uno legato all’altro dalla sventura eppure anche da sentimenti puri e introvabili in un mondo privo di valori se non quelli che in periodo di crisi diventano necessariamente importanti, come il denaro, il colore della pelle e l’estrazione sociale. Il loro legame arriva fino alle estreme conseguenze, materializzandosi in un sacrificio che si poteva intuire fin dall’inizio ma che per questo non inficia la potenza evocativa di questo libro. La sua bellezza infatti sta nella capacità, oserei dire miracolosa, di Steinbeck di offrirci dei ritratti psicologici così appuntiti e penetranti pur usando un linguaggio semplice, privo di fronzoli e corredato da descrizioni minute. A mio parere, l’autore americano è riuscito in questa magia usando sapientemente le piccole sfumature che descrivono un personaggio, collocandole nel posto giusto, dando loro un’importanza che va oltre la descrizione. E così, il solitario di George, il dito indice di Lennie che carezza la schiena del topo, la vigliaccheria violenta di Curley diventano potenti immagini in grado di spiegare una personalità meglio di chissà quali fiumi di parole. Insomma, questo è Uomini e Topi, un romanzo che in circa cento pagine riesce a condensare i drammi di una parte della società restituendocene un’immagine pressoché indimenticabile.
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