Economia dell’imperduto di Anne Carson ci catapulta in un problema apparentemente poco attuale, forse anche poco interessante, salvo scoprire dopo le prime pagine che avevamo bisogno di riflettere sul rapporto esistente tra poesia e denaro, tra poesia e memoria, tra parola e morte.
Economia dell’imperduto di Anne Carson
Investigare l’utilità della poesia, la sua ricaduta nel mondo concreto, non è cosa facile. Il rischio di avventurarsi in simili disquisizioni è quello di ritornare al punto d’origine con le mani vuote. A cambiare la proficuità dell’indagine sono i mezzi coi quali si avvia la ricerca, non una differenza di sola quantità o qualità: ma una differenza sostanziale.
Nel caso di Anne Carson non corriamo mai il rischio di rimanere a bocca asciutta dopo un percorso nelle sue pagine, anzi, come in un viaggio troppo intenso, troppo ricco di suggestioni e considerazioni, troviamo difficile tenere insieme tutte le cose splendide che abbiamo vissuto e che vorremmo raccontare.
La poetessa, critica e studiosa canadese ha la capacità di fermare il tempo e l’attualità con le sue pagine, fino a farci considerare i problemi da lei affrontati l’unico dibattito importante da affrontare. Una capacità non certo comune, che pone Anne Carson ad un livello differente rispetto alla maggior parte degli scrittori contemporanei.
Nel caso del suo saggio Economia dell’imperduto, veniamo catapultati immediatamente in un problema apparentemente poco attuale, forse anche poco interessante, salvo scoprire dopo le prime pagine che avevamo bisogno di riflettere sul rapporto esistente tra poesia e denaro, tra poesia e memoria, tra parola e morte.
Nelle prime pagine Anne Carson spiega su cosa indagherà nella sua ricerca: se consideriamo l’economia di grande importanza per l’umanità, come si rapporta la poesia e la sua “inutilità” al mondo del denaro? La risposta è già nel titolo, anche perché la poetessa utilizza un neologismo unlost, tradotto magnificamente da Patrizio Ceccagnoli con imperduto, un termine che racconta dì qualcosa che, pur constatandone l’assenza, percepiamo ancora in essere, presente.
Questo gioco di parole che ricorda l’operazione poetica di Derrida in Ciò che resta del fuoco (leggi la recensione), ma rimanda anche alla filosofia negativa di Parmenide, ci porta immediatamente al centro del discorso: il guadagno e l’umiliazione dei poeti, il confronto con il loro lavoro invisibile di salvare la memoria.
Simonide di Ceo e Paul Celan
Anne Carson parte da due poeti, analizzando la loro biografia e le loro opere arriveremo a distinguere chiaramente il campo e quindi a poter tentare alcune riflessioni. Simonide di Ceo e Paul Celan sono due poeti lontani nel tempo e totalmente diversi per atteggiamento e storia personale, uniti però nel loro bisogno di dover giustificare la propria opera.
Nel caso di Simonide di Ceo c’è un problema con la transizione del mondo in cui vive, il passaggio da una economia ancora fortemente basata sullo scambio e sul dono ad un sistema monetizzato, dove il conio faceva da tramite tra le operazioni concrete. Problema centrale ovviamente per un poeta del V secolo a.C., che si trova a cavallo tra un’epoca completamente finanziata da mecenati e il problema di rimanere “sul mercato”.
Nella tradizione critica millenaria Simonide è considerato un avaro, un taccagno, attaccato ai soldi, ma Anne Carson ne fa emergere invece una figura di profonda dignità associata a scaltrezza sociale. Gli aneddoti che lo ritraggono fanno emergere la grande importanza che il poeta dava al denaro, ma allo stesso tempo la sua gestione pacata, parsimoniosa, ci restituiscono l’idea di un uomo moderno che aveva colto come il denaro sia un modo di “ordinare il mondo”.
Per Celan il problema è ancora più grande, deve giustificare, oltre alle sue retribuzioni, la sensatezza di scrivere in un mondo che lo ha buttato fuori dalla sua terra, dalla sua lingua, dal suo passato. A che serve scrivere poesia? A cosa serve il poeta?
È la caparbietà di Simonide, oltre alla malinconia di Celan, a dare un senso alle domande che cerchiamo. Per il poeta greco, “la parola è un’immagine delle cose”, come tale riporta in vita mondi e relazioni, dona immortalità e ricorda l’ordine delle cose.
L’aneddoto clamoroso in cui Simonide, dopo essere stato schernito dal suo mecenate per la poesia composta, deve ricordare le posizioni a tavola del suo padrone, perché dopo il crollo del tetto era impossibile distinguere le ossa degli abitanti della casa, fa sorridere ma immediatamente spiega il rapporto della poesia (arte della memoria) con la finitezza umana, con la caducità del concreto a differenza dell’arte della composizione.
Lentamente, arriviamo a rispondere alla domanda su dove si sedimenti tutta l’umana vicenda di cui siamo a volte protagonisti e a volte spettatori. Appare evidente, finito il viaggio tra le pagine di Economia dell’imperduto, che la poesia salvi tutto cioè che altrimenti sarebbe degradato dal tempo e dallo spazio, spostando anche il nostro vissuto in un luogo infinito, senza attualità.
Anne Carson – Economia dell’imperduto – Utopia
Traduzione: Patrizio Ceccagnoli
Curatrice: Antonella Anedda
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