Coscienza. Che cosa è - Daniel C

Coscienza. Che cosa è – Daniel C. Dennett

Coscienza. Che cosa è di Daniel C. Dennett, a più di trent’anni dalla sua uscita, è invecchiato benissimo, non ha risentito dei progressi delle ricerche e mantiene intatto il fascino dello scritto di rottura, del saggio che vuole smuovere le acque, modificare l’abito del nostro pensiero sulla coscienza, normalizzando un oggetto di studio che tende a ritagliarsi lo spazio di ultima chimera della conoscenza.

Coscienza. Che cosa è di Daniel C. Dennett

La coscienza umana è essa stessa un enorme complesso di memi (o più esattamente, di effetti provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale “neumanniana” implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato per attività del genere. I poteri di questa macchina virtuale accrescono notevolmente i sottostanti poteri dell’hardware su cui gira, ma nello stesso tempo molte delle sue caratteristiche più strane, e soprattutto delle sue limitazioni, posono essere spiegate come prodotti collaterali dei kludge che rendono possibile questa strana ma efficace riutilizzazione di un organo già esistente per nuovi scopi.

Lessi molti anni fa questo libro, che è del ’91, e mi fece innamorare della discussione sulla coscienza. Oggi Raffaello Cortina Editore lo ripropone e ho colto l’occasione per rileggerlo dopo tanti anni e dopo diverse letture sull’argomento. A più di trent’anni dalla sua uscita, mi sento di affermare che lo scritto di Dennett è invecchiato benissimo, non ha risentito dei progressi delle ricerche e mantiene intatto il fascino dello scritto di rottura, del saggio che vuole smuovere le acque.

Questa longevità è in parte dovuta all’impianto del libro: si tratta di una direzione indicata più che di una teoria vera e propria. Dennett stesso, a fine libro, ammette di aver ingaggiato una battaglia di metafore. Ciò però non va a detrazione delle argomentazioni, diventa bensì uno stimolo di esplorazione delle questioni trattate, un orientamento di massima sul percorso da intraprendere e le trappole da evitare, soprattutto resiste nel tempo il tentativo di smantellamento delle abitudini di pensiero che portano ad un vicolo cieco che vede nella coscienza l’ultimo baluardo dell’inconoscibile, riportandola invece tra i meri fatti naturali. Non per questo la coscienza perde il suo fascino, come se la natura non avesse dimostrato tante volte di essere affascinante.

Quello contro cui si scaglia Dennett è il Teatro Cartesiano, la teoria secondo cui la mente è qualcosa di diverso, di ulteriore, rispetto al cervello, una rappresentazione allestita per uno spettatore interno alla nostra testa. Di per sé pare una battaglia inutile, si penserebbe che il materialismo ormai abbia preso piede. Eppure, quando la posta in palio è la coscienza, il Teatro Cartesiano infido fa capolino, dimostrandosi difficilissimo da estirpare, anche quando sembra non entrare in gioco ci mette invece lo zampino.

L’autore prosegue chiedendosi come sia possibile che “tutto ciò sia solo una combinazione di avvenimenti elettrochimici nel mio cervello”. Come il suo stupore mette in luce, non sembra affatto così. O in ogni caso c’è stato un momento in cui egli ha pensato che non sembrava affatto essere solo una combinazione di eventi elettrochimici nel suo cervello. Ma i nostri successivi capitoli suggeriscono una replica: ma come pensi che sembrerebbe se fosse solo una combinazione di avvenimenti elettrochimici nel tuo cervello?

L’ultima frase racchiude davvero il punto secondo me cruciale della questione: perché mai quella che chiamiamo autocoscienza non può derivare da eventi elettrochimici? Come altro dovrebbe essere il risultato di un evento elettrochimico nel cervello? Si tende sempre a spostare più in là l’asticella, ma alla cieca, senza una ragione più precisa di un sentimento, un’impressione, una sensazione di ineffabilità che deriva più dalle nostre intenzioni che da un ragionamento stringente. La spiegazione della coscienza pare inarrivabile perché non ci vogliamo arrivare.

Evoluzione

Perché, come spero di far vedere, alcune caratteristiche della coscienza ricevono un’illuminante spiegazione ammettendo l’ipotesi che la coscienza umana (1) sia un’innovazione troppo recente per essere cablata rigidamente nel meccanismo innato, (2) sia in larga parte un prodotto dell’evoluzione culturale che viene trasmessa ai cervelli nel primo stadio dei loro allenamenti, e (3) che la riuscita della sua installazione sia determinata da una miriade di microaggiustamenti nella plasticità del cervello, il che significa che le sue caratteristiche funzionalmente importanti sono molto probabilmente invisibili a uno scrutinio neuro anatomico malgrado l’estrema rilevanza degli effetti.

Coscienza

La coscienza è scaturita, come tutti i fatti naturali, dall’evoluzione, si è innescata all’interno di un percorso naturale. La coscienza fa la sua apparizione molto recentemente, parlando in termini evolutivi, e da questo si ricava una storia davvero interessante. Dennett sostiene che la coscienza sia un sistema innestato su un sostegno che non si era sviluppato con questa finalità e quindi il cervello ha adattato le proprie strutture per ospitarla. In pratica è un software che gira su un hardware non pensato per farlo girare, ma che ha trovato il modo di farlo funzionare.

Il linguaggio è stato il fattore determinante perché gli esseri umani si stimolassero sia singolarmente che l’un l’altro (esistono anche altri modi, come per esempio le immagini). Questa capacità di stimolazione ha portato all’interno del cervello modi di utilizzo delle strutture diversi, facendone l’alloggio per una nuova modalità di vita. Tanto è vero che Dennett sostiene che le strutture innate del cervello sono quelle che hanno portato ai comportamenti che assicurano la sopravvivenza, mentre la coscienza ha un’esistenza più fragile, poiché, in parte imparata dagli altri e in parte auto stimolata, si tratta comunque di un fattore successivo, instabile perché non ci si nasce, viene personalizzata in quanto fattore molto plastico e non rigido come quelli portati dalla genetica.

Tanto è vero che molti stati della nostra coscienza sono effetti collaterali di meccanismi che servivano ad altro, ma la natura non sopprime ciò che non la danneggia; dunque è fazioso cercare di trovare a tutti i costi l’utilità naturale, e quindi le cause, di tutti gli atti di coscienza.

Dennett scoperchia l’alternativa insensata che viene spesso proposta: la coscienza esiste o no, non sono possibili stati intermedi. Questo assolutismo assomiglia più ad una presa di posizione che ad una conclusione. Perché mai la coscienza non deve sottostare alle regole del gioco naturale? Questa paura dei chiaroscuri è più nostra che della natura, riflette la nostra volontà di staccarci da un sistema che vale per tutti.

Molteplici Versioni e narrazione

Nel nostro cervello c’è un’aggregazione un po’ abborracciata di circuiti cerebrali specializzati, che, grazie a svariate abitudini indotte in parte dalla cultura e in parte dall’auto esplorazione individuale, lavorano assieme alla produzione più o meno ordinata, più o meno efficiente, più o meno ben progettata di una macchina virtuale, la macchina joyceana. Facendo lavorare per una causa comune questi organi specializzati che si sono sviluppati indipendentemente, e dando quindi alla loro unione dei poteri ampiamente potenziati, questa macchina virtuale, questo software del cervello, opera una sorta di miracolo politico interno: crea un comandante virtuale dell’equipaggio, senza conferire a nessuno dei poteri dittatoriali a lungo termine.

Naturalmente lo smantellamento procede anche contro un sé unico padrone della nostra coscienza. Nel cervello girano Molteplici Versioni diffuse per tutto l’ambiente e quella che vince, potremmo parlare di una lotta evolutiva nel nostro cervello, ha il comando momentaneo. Si tratta di un Pandemonio che lotta per emergere, destinato a lasciare sul campo più sconfitti rispetto ad un solo vincitore, che però non è per sempre. Non esiste un unico punto in cui è collocato il nostro io, un agente non ben definito. La coscienza è diffusa in tutto il cervello, è un meccanismo di collaborazione e di lotta che elabora le informazioni nel tempo e nello spazio che non sono quelli osservabili da noi.

Ciò che ne scaturisce è una narrazione che deve sembrare coerente per funzionare. Si tratta, come sempre, del modo migliore che la natura ha trovato per far muovere l’essere umano all’interno del mondo. Dunque la coscienza che ci racconta di un sé al comando è un’utile illusione, il modo migliore per tenere dritta la barra. D’altronde che la nostra biografia sia un racconto, il nostro racconto, non è certo una metafora nuova, quindi niente di strano se quello che siamo è ciò che raccontiamo.

Per il resto invece il libro di Dennett attacca proprio il volersi appoggiare alle apparenze, accettando proni ciò che ci appare senza lo stimolo, o forse con la paura, di approfondire. Questo testo è ancora in grandissima forma, capace di affascinare, e si dimostra tutt’oggi controcorrente, ha ancora un compito da svolgere.

Daniel C. Dennett – Coscienza. Che cosa è – Raffaello Cortina Editore
Traduzione: Lauro Colasanti

Voto - 94%

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Su Agafan

Aga la maga; racchetta come bacchetta magica a magheggiare armonie irriverenti; manina delicata e nobile; sontuose invenzioni su letto di intelligenza tattica; volée amabilmente retrò; tessitrice ipnotica; smorzate naturali come carezze; sofferenza sui teloni; luogo della mente; ninfa incerottata; fantasia di ricami; lettera scritta a mano; ultima sigaretta della serata.

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