racconti erotici - Conte Carlo

Conte Carlo

– Non potete andare avanti sempre con la stessa fasciatura. Avanti. Sedetevi e lasciate che vi lavi il viso e vi cambi le bende. Conte non voglio sentire una sola scusa, mettetevi l’animo in pace.-.

Agnese aveva le mani sul suo braccio e cercava di guidarlo alla poltrona della zona bagno senza usare troppa forza ma con la giusta decisione. Carlo si rifiutava di proferire verbo. Quelle situazioni doveva odiarle dal profondo, si vedeva dalla rigidità dei suoi movimenti, dalla durezza con cui le sue falangi si chiudevano sulle mani di lei, rifiutando il suo aiuto.

-Non devo incontrare alcun capo di stato oggi. Posso anche tenere le bende vecchie di un giorno, Signora Agnese, non siate pedante e lasciatemi essere.-.

Lei si avvicinò al suo orecchio alzando il naso e mormorando “No”. Poi si allontanò.

-Volete forse attribuire a me meno autorevolezza e rispetto di un capo di stato signor Conte? Io che vi faccio il letto tutti i giorni? Beh sappiate che io richiedo molta più cura di voi stesso di un capo di stato. Io che forse non condividerò i vostri banchetti ma vi conosco meglio di quanto voi conosciate voi stesso.-.

Lui lasciò la presa. 

-E guai a voi se oserete di nuovo umiliarmi rispetto ai vostri amici importanti. Io non sono affatto da meno e sarà il caso, se non siete in grado per motivi fisici di prepararvi alla mia presenza che lo facciate almeno a livello psicologico!-.

Lui si lasciò guidare alla poltroncina.

Ok, era tutto a posto ora. Non una parola di risposta era uscita da quella bocca, era solo la sua docilità, la giusta risposta. Agnese gli slacciò le bende dietro alla nuca e gli scoprì gli occhi chiusi. Lui sbatté le palpebre al contatto delle ciglia con l’aria ma il suo sguardo rimase fermo e vitreo. Senza che le pupille mettessero a fuoco nulla. Lei intinse la spugna nella bacinella piena di acqua e sapone e cominciò a lavargli il viso con dolcezza, percorrendo i tratti delle sopracciglia, del naso, della fronte, con calma. Lui alzò ancora la mano sul suo braccio, come a segnalarle il fastidio di tutta quell’acqua che gli bagnava il viso e Agnese gli porse un asciugamano. Glielo mise in mano perché sentisse il tessuto assorbente sui polpastrelli. E fu solo un istante quello in cui le loro mani si toccarono. Un attimo in cui lei si accorse che le dita di Carlo scorrevano lungo le sue, che si soffermavano sulle mani. E non ebbe il coraggio di ritrarsi perché cominciava davvero a essere bello.

Lui le avvolse le mani con le sue e l’attirò a sé, con dolcezza. Finirono uno nella bocca dell’altra, uno nel respiro dell’altro. La spugna le cadde di mano. Lei si tenne alla poltrona, ed esitò, perché non era dolcezza quella che sentiva, era desiderio, e il pensiero, improvviso, di quell’uomo solo in mezzo al niente di quell’ospedale, lontano dalle cortigiane agghindate con cui faceva l’amore di solito, lontano anche da se stesso, e dal turbine mondano della vita di corte a cui si era tanto legato la colpì come una freccia di cupido. E ricambiò il bacio come poteva, un po’ sopraffatta da lui. Lui abituato a slacciare in fretta le camicette delle sue amanti, ad arrivare subito al punto. Lui che aveva già una mano sul suo seno e non aveva ancora finito di baciarla. E non si era neanche preso la briga di dirle “ti voglio”, come se questo fosse un inutile surplus quando una donna ce l’hai già fra le mani. Il laccio di quella gonna semplice e popolana fu facile da strappare e lei non si staccò dalla poltrona. Lui la sollevò e le piegò le gambe e lei non riuscì a trovare una sola motivazione sulla faccia delle terra per non lasciarlo fare. E si tolse definitivamente la camicia. e lo baciò ancora e ancora mentre lui scendeva a toccarla sempre più nel profondo, con calore.. Voleva ancora che i loro respiri si incontrassero e lo baciò di nuovo, nuda ed eccitata. Quando Agnese si accorse che lui stava entrando dentro di lei fece un sospiro, profondo, di voluttà e lo lasciò muoversi con passione fino a quando non le strappò un grido di piacere, mentre ancora la stringeva con una mano dietro alla schiena. Lui continuava a muoversi in quel modo strano e indescrivibile, tenendola stretta. Agnese lo sentiva, come in trance, e ne era affascinata, lo lasciò sfogarsi in preda alla curiosità, ammaliata sia dal piacere che provocava che dal carattere che esprimeva. Chiaramente c’era qualcosa di personale in quel modo di prenderla. Si accese dentro di lei un bisogno molto più grande di quello, ovvio, del desiderio, un bisogno che solo in parte fu soddisfatto dall’orgasmo di lui.

Fu così, fu un momento, un attimo dopo di cui lei si ritrovò tutta svestita con la paura che chiunque entrasse e la trovasse così, lei, la Signora Agnese.. Gli tirò un’occhiata rancorosa che per fortuna lui non poté gustare altrimenti avrebbe riso di lei come meritava.

-Beh sta per arrivare il dottore- disse Agnese un pò in ansia,- Quindi sarà meglio che io rimetta un po’ in ordine.- Lui sorrise guardando nella direzione da dove veniva la sua voce. E lei proprio non resistette e gli diede un altro bacio, stringendolo forte al petto. Poi rassettò in silenzio e scappò via, veloce e senza voltarsi indietro.

Si era ferito in battaglia, il conte Carlo. E non vedeva più. Una bomba era scoppiata a pochi passi da lui e gli aveva provvisoriamente tolto la vista senza lasciargli neanche il tempo di scappare. I commilitoni lo avevano tratto in salvo mentre la battaglia continuava e lo avevano portato in questo ospedaletto di campagna, in luce del fatto che si trattava di un nobile ufficiale. Insomma, era fortunato, nella sfortuna. Si erano conosciuti due anni prima, in occasione del loro matrimonio. Ma in quell’occasione lei aveva usato il suo nome ufficiale, Emma. Non aveva usato il suo vero nome, quello che stava usando ora: Agnese. Quindi lui, non vedendola, non aveva idea di chi lei realmente fosse. Il che da sicuramente qualche vantaggio almeno in linea teorica. Insomma erano sposati, ma lui non lo sapeva. Agnese sorrise fra se e se. Quell’uomo non aveva fatto altro che darle problemi per ben due anni. Era irragionevole e poco propenso ad accettare le regole, cosa che lei comprendeva benissimo, ma che aveva dovuto affrontare tutto da sola, senza parlarne con nessuno. Aveva dovuto trasferirsi dalla sua contea per quel matrimonio combinato. Certo è importante un’alleanza fra contee ma quel matrimonio aveva avuto tanto il sapore del suo patrigno che voleva liberarsi di lei. Dopo averla costretta a cambiare nome e a soggiornare in convento per cinque anni, prima del matrimonio. Inoltre uno sposalizio aveva un senso limitato, dato che lei ormai aveva trent’anni e non era più in stagione “da marito”. Insomma tutta la situazione era davvero forzata, e l’unica cosa che le era venuta in mente era di fare il suo dovere di moglie e occuparsi della salute di suo marito, che in fondo era l’unica cosa che le rimaneva, oltre alla sua famiglia dispersa in una contea lontana.

Già, senza voltarsi indietro. 4 ore dopo era già. di nuovo, nella stanza a servire il pranzo. E sapeva perfettamente perché si sentiva come si sentiva. Non trovava molte scuse.

– Siete voi?-Chiese il Conte con brevità. Ormai erano venti giorni che gli portava da mangiare e gli faceva da governante, la sua presenza doveva essere rituale e rassicurante. Eppure generalmente dopo quel “Siete voi?” veniva un “Signora Agnese” che oggi era stato omesso. Agnese sospirò, se l’era cercata.

-Si signore sono io, le porto il pranzo, come si sente?-.

Lui non le rispose subito ma alzò il mento in aria con fare sbarazzino.

– Come mi sento? Forse voi siete quella che lo sa meglio in queste quattro mura, e nonostante questo me lo chiedete. Chi siete voi Agnese, nella vita di tutti i giorni, quando non dovete assistere malati esigenti come me?

Era scostante, sentirsi rispondere con una domanda. Non era assolutamente pronta a questo, così come non era pronta a quello che era successo la mattina. Decise di mentire. Non c’erano altre strade. In fondo aveva mentito fino a quel momento, aveva mentito quando lo aveva sposato, aveva mentito sul suo nome, e poi aveva addirittura detto la verità, il suo vero nome, mentendogli e dicendogli che era solo un’infermiera. Quindi tanto valeva continuare in quello sport ingrato, tanto nessuno le avrebbe detto che era stata “brava”, alla fine. Ma, forse, intravedeva la possibilità di scoprire di più di quell’uomo, che, nonostante la mole di menzogne fra loro non fosse affatto trascurabile, era pur sempre suo marito.

-Vivo in paese ad Asti- rispose anche lei brevemente, con un tono vagamente seccato dalle situazione.

-Siete giovane?-

-Trent’anni.-

-Beh non molto quindi, siete sposata?-

-Si..-Lo avrebbe comunque scoperto visto che non aveva fatto altro che toccarle le mani per tutto il tempo in cui avevano fatto l’amore.

-Ah..- si sistemò sulla sedia- E vostro marito dove lo avete lasciato?- chiese perentorio.

Lei sorrise.

-Dunque.. Mio marito è un mercante. Passa in viaggio in Francia molto tempo, in questo momento è assente da circa tre mesi.

Lui sembrò più rilassato all’idea.

-Avete figli?- chiese ancora.

Qualche divinità pagana salvi le amanti dagli interrogatori. Pensò Agnese.

-No, non abbiamo figli..- rispose con rammarico.

Silenzio. Nonostante la cecità lui aveva annusato il rammarico. SI fece coraggio, probabilmente, perché ricominciò a parlare.

-Ho capito, ma non ne avete per un motivo preciso, o semplicemente perché non riuscite a rimanere incinta?- continuò.

Agnese sospirò, che domande! Perché non aveva figli?!

-Mio marito non è mai stato attratto da me. – spiegò brevemente.

-Ah.. -ripeté lui- strano mi siete sembrata molto desiderabile questa mattina. -spiegò a sua volta. Agnese prese in mano tutto il suo di coraggio.

-Voi non mi vedete, potrei essere orribile, per voi non farebbe differenza. – sorrise, pensando a quello che in realtà gli stava nascondendo.

Anche lui sorrise, ma probabilmente per ben altri motivi, fu un sorriso a metà fra l’imbarazzato e il condiscendente.

-E poi il mio è stato un matrimonio combinato dalla mia famiglia. Io ho ben poco a che fare con tutta quella faccenda.-.

Lui si sistemò ancora sulla sedia. Si cibava con calma, fra una pausa e l’altra. E sembrava chiaramente a disagio nel non poterla guardare negli occhi mentre la “interrogava”. Ma non disse niente, spontaneamente, di se stesso. Come marito, come uomo. Lei rimase a guardarlo mangiare un po’ intontita, ma non lo avrebbe fatto se lui avesse potuto vederla, forse sarebbe scappata via ancora. Poi qualcosa, istintivamente, affiorò sulle sue labbra.

-Dove avete imparato a fare l’amore così?-fu la sua domanda.

Lui sorrise, così mentre mangiava.

-Lo trovate così inusuale? -.

Lei si sforzò con tutta se stessa di ricordare le volte che aveva fatto sesso prima del matrimonio; lontani accenni di coinvolgimento che ormai avevano perso di efficacia emotiva.

-Si cioè no.. Per quello che ricordo ho avuto esperienze differenti.- era un pò in imbarazzo, ma anche lei si stava divertendo. 

-Per quello che ricordate. Mh. Molto bene. Beh sappiate che non avete perso la maestria nel farlo Agnese. Siete davvero piacevole.. Anche se non posso garantire nella vostra avvenenza.- Sorrise ancora, sempre in modo mesto.- comunque la mia situazione di cecità dovrebbe risolversi in qualche settimana, ad ascoltare il medico. Quindi se avrete pazienza potrò darvi un giudizio più completo…-.

Agnese sentì una stretta al cuore, e avvertì distintamente un moto di fuga. Resistette, ma sapeva che non lo avrebbe fatto per molto.

-Bene.- fece finta -Questo mi fa piacere soprattutto per voi, signor conte. Siete ancora così giovane e non meritate questa condizione.- aggiunse.

Lui non diede seguito alle sue parole, e lei attese con calma di poter uscire dopo che lui ebbe terminato. Nessun tentativo, neanche casuale, di toccarla. Alla fine, quando uscì dalla stanza, lei era sollevata e delusa contemporaneamente. E non sapeva cosa pensare di quell’interrogatorio. Lo aveva convinto? Non lo aveva convinto? Non era riuscita ad estrarre neanche una misera informazione da quell’uomo. Era di pietra accidenti. Non c’era da stupirsi che in tempi di difficoltà fosse così solo se aveva questi atteggiamenti orgogliosi. Eppure la mattina non aveva mostrato difficoltà a lasciarsi andare. Neppure una. Agnese si mordicchiò il labbro superiore, ansiosa. E continuò a farlo tutto il pomeriggio, in attesa della cena, in attesa del nuovo incontro programmato in cui avrebbe voluto estorcere a quell’uomo informazioni che lui non aveva alcuna intenzione di darle. Darle a lei? E perché mai?

Che rabbia accidenti, tutte quelle domande e neanche un bacio. Niente. Ma di che credeva che fosse fatta? Di pietra come lui?

Agnese optò per l’azzeramento delle aspettative verso quell’uomo. Non poteva sopportare di essere respinta né di essere accettata perché sentiva quell’intima curiosità proliferare, il che la rendeva inevitabilmente disponibile a rispondere alle domande del conte, anche mentendo, ma pur sempre a rispondere. Si sistemò le gonne e si diresse verso il gruppo di inservienti che facevano il bucato, almeno avrebbe avuto qualcosa con cui distrarsi.

Il matrimonio era stato dei più sontuosi, nella cattedrale di Torino l’avevano attesa tutti i nobili e la popolazione in festa. La sua famiglia era accorsa tutta, compreso il patrigno, per festeggiarla. Il vestito da sposa era ampio e pieno di pizzi e perline, con un sottogonna di tulle. Ci avevano messo ben 4 ore a prepararla in modo consono, e lei aveva lasciato fare. Conosceva a malapena il futuro consorte, ci aveva parlato una sola volta, con parsimonia in modo da non mettere nei guai nessuno con la propria irriverenza naturale. Il patrigno la guardava austero dal suo posto sull’altare mentre il futuro marito si avvicinava. Non ci fu alcun bacio alla fine della cerimonia e dopo i festeggiamenti Agnese fu messa su un calesse con tutti i suoi bagagli diretta al castello del conte, sulle langhe piemontesi, senza che nessuno si preoccupasse di accompagnarla tranne una dama di compagnia che le rimase sempre affianco. In due giorni la cerimonia fu consumata e il conte fu probabilmente contento del risultato per come la licenziò con freddezza. Non si aspettava certo comprensione matrimoniale, ma in compenso c’era stata una discreta sfilata di dame di corte che avevano occupato non poco il conte durante i balli dei festeggiamenti.

Il terzo mese di matrimonio ne era arrivata una al castello, mentre il conte Carlo non c’era, e aveva chiesto dei soldi per liberarsi di un possibile futuro nascituro. Ne aveva parlato come di uno smacco alla dignità del conte, se non lo avesse fatto. Agnese non aveva idea di cosa fare di fronte a una richiesta del genere, di fronte a un marito che non si faceva vedere da nessuna parte. La dama si chiamava Esmeralda ed era un’abitué a corte, cosa che invece ad Agnese non capitava, era chiusa in quel castello da tre mesi. Alla fine aveva ceduto, le aveva dato i soldi richiesti e non aveva più fiatato, mandando giù orgoglio e pregiudizio di fronte a un atto simile. Al ritorno del conte da corte non aveva detto nulla, sperando di passare sotto silenzio quell’atto di cui si era resa partecipe.

Non parlò molto.

-Signora è sicura di volerci aiutare e di non voler rimanere nelle sue stanze?-. Agnese fece un mezzo sorrisetto.

-No Camilla, non voglio rimanere nelle mie stanze. Dai aiutami a stendere queste lenzuola lavate.-

-Come vuole signora-.

Le inservienti di quel paese non erano abituate a condividere la loro vita con persone di rango più elevato. La maggior parte era imbarazzata dalla presenza di Agnese e lei sapeva che sarebbe stato scorretto, per lei, mettersi al loro livello, ma aveva bisogno della spontaneità delle ragazze, della gioia dei bambini, della crudezza delle donne più anziane. La faceva sentire viva, molto di più che parlare di merletti con le sarte di palazzo. E la cecità di suo marito le permetteva di vivere, anche se momentaneamente, in questo involontario paradiso di semplicità a cui si adattava con entusiasmo.

Finito di stendere riportarono le ceste in casa. Si misero in cucina e cominciarono i preparativi per la cena, fra una piccola tensione e l’altra, fra una giovane che gridava di gelosia per il marito lontano e un’anziana inacidita che voleva la cucina perfettamente organizzata. Nessuno se la prendeva con lei, perché era pur sempre una “signora”, ma nessuno le nascondeva gli umori e i sussurri nei corridoi. Tutto prendeva vita e supportava una tendenza al pratico che l’aveva sempre attratta, del popolo. Era interessante come le donne guardavano all’utilità per lei che, nonostante fosse ormai una donna, le osservava ancora come una bambina alla ricerca di quella sicurezza che solo la dolcezza di una madre può dare.

Quando portò la cena al conte era assolutamente stanca, e non aveva voglia di domande, né di menzogne, né di orgoglio. Non voleva proprio niente. Era riuscita ad assopire gli istinti della mattina e a metterli a forza in un angolo della sua anima, e in fondo, era contenta così.

Appoggiò il vassoio di fronte a un conte apparentemente annoiato e distante, che lo allontanò con fastidio, fissando il vuoto.

-Perché non mangiate?- chiese Agnese. Lui schioccò le labbra. Non disse nulla, non un lamento. Ma lei poteva palpare la frustrazione nell’aria.

-Sapete leggere Agnese?- chiese lui a sua volta. Lei non sapeva ancora se essere lusingata da tutta quella serie di domande o essere offesa dall’assenza totale di risposte. Pazientò.

-Si, so leggere-.

-Bene.- pausa. Agnese non aveva intenzione di porre una nuova domanda.

-Dentro il baule, non so dove, nella stanza ci deve essere un baule, apritelo, cercate voi per me…- pausa, respiro-Troverete un libro. Avete mai letto un libro che non sia la Bibbia Agnese?-. Lei lo guardava, i lineamenti tesi sotto le bende, le braccia abbassate lungo i fianchi in segno di resa. Era così presa dall’osservare che stava per scordarsi anche lei di rispondere.

-Subito.. Subito lo prendo, si. C’è un baule, lo cerco, il libro… E si, ho letto altri libri, mia madre era appassionata di poemi. Li leggeva ad alta voce con noi figli. Certo che vi leggo il libro.-. Agnese cominciò a parlare guidata dal volume rilegato, lasciando che la verve di Machiavelli trasparisse dalla sua pronuncia, perché il senso di quel testo non si perdesse in una lettura stolta, perché il sapere di quel libro potesse colmare lo spirito di quel conte dissoluto e ferito, perché vi trovasse forza. Eppure doveva esserci qualcosa di troppo ritmico, troppo costante, nella sua voce, perché ben presto vide il respiro teso del conte Carlo acquietarsi, le sue mani appoggiarsi in grembo, la sua testa adagiarsi alla testata del letto in cui era disteso.

Si chiese se dormiva. Sotto le bende, quegli occhi erano serrati. Quelle orecchie sentivano ancora? Si interruppe. Lui non si mosse. La sera non era inoltrata. Agnese si strofinò gli occhi provati dalla lettura e lo passò in rassegna, non per vedere che tutto andasse bene, ma nella vana speranza che bastasse guardarlo per avere tutte le risposte che non le aveva dato durante il giorno. O forse per ritrovare quello che lui le aveva inequivocabilmente preso la mattina. Si soffermo sui baffi per un momento, reduci da un periodo di due giorni di mancata cura della barba. Il barbiere in ospedale si faceva vedere di rado anche con gli ufficiali. E chissà che non fosse possibile prendere anche lei qualcosa da quell’uomo, nel sonno, addirittura, nessuno l’avrebbe vista ne sentita e per un momento sarebbe stato tutto come la mattina. Solo un piccolo bacio leggero senza svegliare nessuno.

Carlo non stava affatto dormendo.

Le fermò il viso vicino al suo co una  mano, mentre con l’altra si concentrò sui suoi fianchi, e la circondò, con l’avanbraccio e il gomito, non prima di averla sistemata vicino a sé. La imprigionò facendole passare il braccio intorno alle anche, e tenendola stretta non smise di baciarla, con una passione che solo la rabbia e la disperazione di un ferito di guerra che si attacca alla via con tutto se stesso poteva metterci. Non la lasciò andare un solo momento, mentre si spogliavano, mentre continuavano a baciarsi, la teneva sempre stretta e vicina. Agnese era stupita da se stessa, per essere stata colta in fragrante a desiderare quell’uomo, e stupita da lui, e dalla forza che ci stava mettendo, toccandola. Non riusciva a muoversi bene, sentiva il braccio di lui stretto attorno a sé e il suo sesso muoversi dentro di lei e tutto questo le dava alla testa. Si sentiva desiderata e presa, e cercava di assecondare i suoi movimenti senza rinunciare al suo piacere, che arrivava sempre, repentino, quando stava di sopra. In quel momento stava di sopra ma era legata, immobilizzata dalle sue mani, dalla sue braccia. Che movimenti avrebbe potuto fare, in quelle condizioni, che piacere avrebbe potuto trarne? Si avvicinò al suo orecchio e gli sussurrò di toccarla con le mani. E sen la sua presa diminuire. SI mosse immediatamente, avanti e indietro, sfregandosi. Lui con le mani le strinse le natiche, senza dire nulla. Lei venne tutto  d’un fiato, sentì il piacere salire dal profondo e arrivare fino ai polpastrelli delle mani che erano ben piantati sulle spalle di lui. Distese le mani e si lasciò sfuggire un gemito mentre lui continuava a muoversi, incurante del momento di apice che lei stava vivendo. Agnese cominciò a sentirsi confusa, i suoi movimenti si fecero più impacciati così lui la rovesciò e la mise sotto di sé e conotnuò fino a quando non venne anche lui che ora era completamente dentro di lei e poteva prendere quello che voleva. Alla fine erano entrambi spossati. Lui non aveva voglia di parlare, come non aveva parlato fino a quel momento, e lei invece avrebbe ancora voluto fargli mille domande, ma si tratteneva, aspettando il momento migliore per vuotare il sacco.



La guerra procedeva senza battute d’arresto e le conquiste erano tante. il re era contento ma non lasciava trasparire troppa sicurezza, rimaneva pronto ad ogni evenienza, mentre tutto si svolgeva in modo più o meno strategico e i conti convertitisi alla causa nazionalista si moltiplicavano. Il re era sempre più potente e un alleato prezioso per i sovrani stranieri che mandavano delegazioni e truppe di supporto. I giochi non erano ancora fatti e i nemici erano ancora potenti ma rimaneva un sostanziale ottimismo e una voglia di rischiare che sapeva di coraggio e idee autentiche di nazione e libertà, di emancipazione e movimento. Era difficile rimanere inerti.

Il fratello del conte, il re, si fece presto vedere all’ospedale, per discutere le tattiche militari da intraprendere. Agnese si nascose con cautela in modo da non farsi vedere e lo vide solo dalla finestra entrare nella stanza di Carlo ed uscirne due ore dopo con fare determinato, chissà che risoluzioni aveva preso e che razza di bricconerie aveva intenzione di fare al nemico. Ben presto  si seppe dell’alleanza con le camice rosse per la conquista della Sicilia. Stava per partire una brigata con più di mille soldati per raggiungere Palermo, con il benestare del re e di tutti gli alleati.

L’ospedale era sull’orlo del trasferimento. Nuovi fronti lo attendevano. La maggior parte dei medici era stata trasferita. In paese la gente cercava nuove occupazioni e metodi di sostentamento che non prevedevano la presenza dei soldati. Le vecchie si chiudevano in casa, le donne si recavano a lavare I panni nelle residenze di campagna. In cinque settimane tutto era cambiato e tutto era rimasto uguale, con costanza. Agnese e Carlo si erano accordati per fare l’amore ogni sera perché lui se era reso conto del timore di lei di essere colta in flagrante dal medico la mattina. Lei leggeva. Facevano l’amore all’inizio sempre nello stesso modo, come se fosse necessario riaffermare l’ovvio ogni giorno. Senza che lui dicesse ti voglio, senza che lei ricevesse risposta alle sue domande. Ma ogni sera nel rituale dei loro movimenti lei trovava sempre una risposta diversa, silenziosa, inafferrabile, e lei tentava, tutte le sere, di fermare il momento, di baciarlo e di chiedergli perché, e allo stesso tempo di prendergli le mani. Ma il momento non può essere fermato e lo scorrere del tempo significava inevitabilmente che quelle pupille cominciavano a muoversi, a riconoscere la luce dall’ombra, a distinguere le figure, seppure in modo confuso. E cambiandogli le bende tutti i giorni Agnese aveva un’idea precisa di questi miglioramenti della salute di suo marito. E ancora non voleva, non voleva essere riconosciuta, e quel moto di fuga era sempre in agguato dentro il suo animo. 

Si era assicurata che fra le donne ci fosse qualcuna pronta a sostituirla, nel portare i pasti al conte. E si era assicurata che nessuna facesse domande su di lei al conte, che nessuna gli passasse la conoscenza, anche casuale, che la sua vera moglie era all’ospedale er assisterlo. Aveva inventato una marea di scuse, e alla fine i suoi ordin erano stati accettati senza obiezioni.

Ci volle poco più di un secondo, alla fine, per decidere, quando vide gli occhi di lui fissarsi sul suo viso dopo avergli cambiato le bende.

-Potete vedermi signore?- gli chiese tentando di nascondere l’emozione.

-Non del tutto Agnese, non del tutto..-.

Questa risposta era tutto quello che le serviva, quella mattina tagliò i ponti con il momento che avrebbe dovuto fermare, si sbrigò, torno nelle sue stanze, impacchettò la sua roba e avvertì la servitù che se ne stava andando. Prese il primo calesse che partiva per la città, nel primo pomeriggio, senza neanche servire il pranzo al conte. Non voleva essere riconosciuta e scappò via in un baleno, per tornare la castello che l’attendeva placido assieme alla sua vita di prima.

Il castello del conte era disperso fra le langhe, nel piemontese, lontano dalla casa di pianura dove era nata Agnese, ma vicino a vigne e coltivazioni di ogni tipo. Immerso nel verde aveva qualcosa di scuro e teatrale che lo avvolgeva, fra i giacinti e le piante rampicanti che ne circondavano le mura. Agnese viveva lì con la dama di compagnia, una biblioteca e una chiesetta di campagna. In estate era fresco e vivibile e in inverno era duro e difficile da vivere se non di fronte al caminetto.

A quel punto il tempo scorreva lento, senza cambiamenti, certo c’erano le opere di bene, asili, palestre per la popolazione, che lei si era data da fare per instaurare senza andare contro la vita normale del popolo. Ma queste iniziative riempivano la sua vita solo fino a un certo punto. La sua dama di compagnia era sempre più dubbiosa, perché era l’unica che sapeva tutto e diceva che i ciechi sviluppano di più gli altri sensi. E se anche il marito non aveva ancora riconosciuto la sua voce lo avrebbe fatto alla prima occasione, senza neanche accorgersene. Agnese attendeva quel momento come una specie di giudizio universale, perché nella sua vita non aveva ancora fatto abbastanza marachelle per non meritarsene un’altra. Il tempo scorreva e ben presto si rese conto che anche lei era incinta. Passarono uno due mesi e il ciclo non si presentò mai. Il terzo mese, assieme alla fioritura delle rose, arrivò una comunicazione da corte che la richiamava per il ritorno di suo marito in società dopo l’infortunio. Avrebbe dovuto attendere a un banchetto in suo onore, e Agnese non aveva idea di da che parte cominciare quell’impresa del non farsi riconoscere. Arrivò una lettera dal conte stesso che la richiamava a Torino, e ne richiedeva la presenza con fare fermo ma distaccato. Il conte non si presentò mai a casa, neanche in quell’occasione. La richiamò direttamente a casa del fratello.

Agnese prese il coraggio a quattro mani, si organizzò per andare e un bel mattino si ritrovò a varcare la soglia del palazzo reale senza sapere neanche se spiccicare parola, con la dama di compagnia dubbiosa alle costole e con una gravidanza da far passare inosservata. Unica consolazione, la presenza di suo fratello e di sua madre a corte per l’occasione. Il patrigno almeno aveva evitato. Agnese procedette fiera verso le sue stanze dopo essere arrivata, sperando come di consueto di non trovarvi altri occupanti. Vide la dama Esmeralda, vide il re e vide la regina, e tutti fissarono il suo ventre, la prima con fare invidioso, e i secondi con fare indagatore. Di chi poteva essere quel figlio? Nessuno era stato messo al corrente della sua presenza all’ospedaletto di Asti e non potevano certo essere informati ora, che la marachella era stata fatta. Suo marito si presentò in veste ufficiale al banchetto, ma non sembrò notare il suo stato, sembrava preso dalla confabulazione con generali e commilitoni. Non le rivolse, fortunatamente, neanche la parola.

-Madama Emma volete seguirmi in giardino a vedere il bellissimo lavoro fatto del nostro architetto?- Chiese la regina. E tutto quelli che usci dalla labbra di Agnese fu un minuscolo –Certo signora regina.-. Nessuno sembrò accorgersene. Le sembrava di essere un suicida che cade da una torre e continua a dirsi “fin qui tutto bene”.

La dependance era candida, con un soffitto azzurro cielo, composta su pianta circolare di un ampio porticato e una vasca interna marmorea. Si trattava di una dependance termale in cui in estate era possibile rinfrescarsi e ristorarsi leggendo in mezzo all’ampio giardino all’inglese che la circondava. La regina non perse occasione di illustrare le particolarità della costruzione e la bellezza degli interni.

-Vedo che siete in stato interessante madama, da quanto tempo? -Chiese la regina mentre visitavano la sala termale del giardino. La presenza di sua madre la imbarazzava un poco. -Tre mesi. Disse brevemente.

-Mia figlia incinta ci credeste? Finalmente è il suo turno di essere madre. 

-Ebbene c’è ancora tempo. Ricordo quando aspettavo il mio primo figlio, è stato un periodo molto bello dal punto di vista matrimoniale.- ribatté la regina con fare complice.

-Penso che il conte sia molto preso dai suoi impegni con l’esercito in questo momento.- si schermì Agnese – Gli vorrei chiedere se ha intenzione di tornare in guerra. Non ne ho avuto occasione.-.

-Ohh sarebbe il caso che si calmasse.- sostenne la regina,- Lui e suo fratello. Gli è andata bene con questo infortunio che è stato momentaneo, ma all’inizio avevamo tutti una gran paura.-.

Il conte non si fece attendere, al pranzo era presente e seduto proprio affianco a lei e Agnese non riuscì certo ad evitare che qualcuno le rivolgesse la parola. Parlò in quantità. Eppure lui non sembrava cogliere la familiarità della sua voce. Vi fu un momento in cui la salvietta le scivolò dal grembo e fu lui a raccoglierla.

-Grazie.- fece lei con naturalezza, e vide qualcosa nei suoi occhi che la fissavano come non avevano mai fatto prima, un lampo forse di riconoscimento, o forse lui si rese semplicemente conto che era incinta, non lo sapeva. La naturalezza le morì in bocca di fronte a quello sguardo, e alla voglia di toccarlo ancora che le sorse dentro in un singolo istante. Era troppo. Tutto insieme era troppo da gestire. Sentì la risata di Esmeralda e si raffreddò, ma notò un cambiamento che non poteva essere casuale. Finito il pranzo rimasero brevemente da soli.

-Allora siete umana anche voi, vedo che siete incinta.- Lei tentò di non rispondere, cercando di celare la verità. -Forse capite anche voi che cosa vuol dire innamorarsi allora. Mi accollerò un figlio illegittimo grazie a questo?- fu la sua domanda. Lei si sentì oltraggiata, lo fissò negli occhi e non riuscì a star zitta.- Preferireste una moglie come Esmeralda, disposta a togliersi di dosso ogni responsabilità forse?- sbottò.

-Emma.- la apostrofò lui,- perché mi parlate con questo tono, non dovreste, sono stato in guerra negli ultimi mesi e tutto quello che ho guadagnato è una moglie fredda che a imparato cos’è l’amore fra le braccia di qualcun altro.- sussurrò.

-Forse dovreste lamentarvi della vostra completa assenza.- rispose lei ancora offesa.

-Forse… Ma non ci vedo chiaro. Posso almeno sapere chi è il padre?- chiese lui. Agnese dovette confessare a se stessa di non avere una bugia pronta da riferire. Un padre fittizio non lo aveva certamente trovato.

-Preferirei non dire.- tagliò corto. Ma lui aveva già udito quel tono perentorio e improvvisamente, nella più assoluta calma, commise un errore molto significativo.

-Certo A…- lui si girò di scatto, come se fosse stato trafitto da una freccia. Ecco, aveva riconosciuto la sua voce. Lei rimase immobile ma un mezzo sorriso le affiorò sul volto.

-Credo che sia meglio andare.- disse dirigendosi verso il salone principale dove il fratello e la madre l’attendevano. Lui non disse nulla, stordito da quello che iniziava solo a sospettare.

-No aspettate..- niente, lei aveva già preso la porta, sperando di scappare lontano.

Le parole “quel figlio è mio”, risuonavano nella mente di Carlo come la bomba che lo aveva reso cieco. La inseguì nella stanza accanto solo per guardarla allontanarsi di corsa e vedere suo fratello avvicinarglisi come se niente fosse. Lo guardò stranito. -Vostra sorella…- disse senza finire la frase.

Edoardo era ormai un uomo, anche se più piccolo di Agnese, aveva fatto pratica di battaglia e di spada con i migliori maestri e aveva coltivato forza e maestria. Rinchiuse come si addice alla corte dentro a un’uniforme che gli calzava a pennello. Era in tutto per tutto un nobile di rango.

-Oh, mia sorella che ha fatto questa volta? Non mi stupisce la vostra espressione, a volte sa essere veramente fuori luogo, non si sarebbe messa contro il nostro patrigno se non fosse così.- disse Edoardo tutto d’un fiato. Il fratello di Agnese aveva l’abitudine di dire quello che pensava, e non tenersi per se certe cose. Immediatamente catturò l’attenzione di Carlo.

-Agnese.- disse lui ancora stranito.

-Si questo è il primo nome di mia sorella. Non avrebbe dovuto usarlo, lo ha fatto? Il mio patrigno non ne sarà contento.-.

-E ditemi, come mai non lo usa più?-. Fu la domanda di Carlo, e andò a parare direttamente sul problema. Edoardo era pronto a raccontare ogni cosa.

-Non vi ha messo al corrente? Strano. Venite con me a fumare e vi spiegherò ogni cosa.-.

Cambiarono stanza di nuovo, Agnese vide Carlo sparire dietro una porta con il fratello e poté solo intuire quello che stava succedendo, ma la sua fuga aveva lasciato campo aperto a questo genere di avvenimento e ora, era qualcun altro a gestire la sua vicenda.

-Come sapete mia sorella non è più giovanissima. Da giovane, quando mio padre era ancora vivo, si innamoro perdutamente di un popolano, un benestante, per l’esattezza un commerciante. Mio padre chiuse un occhio in nome dell’amore che lo legava a sua figlia ma il mio patrigno non approvò la cosa allo stesso modo, e la costrinse a lasciarlo e ad andare in convento per qualche anno. Certo i matrimoni con i popolani non sono cosa ben vista ma lui fu costretto all’esilio, mentre lei, per l’onta, fu costretta a cambiare nome. Questa è la storia.-.

Carlo annuiva, e ricordava le menzogne che lei gli aveva propinato i primi tempi che facevano l’amore all’ospedale. Non c’è menzogna che non contenga un po’ di verità dunque, pensava. E pensava anche a come diavolo aveva fatto a trovarsi una moglie così complessa. Ora era necessario inseguirla? Intrappolarla? Tutto gli sembrava surreale anche se cominciava a capire il perché di tutte quelle fughe, quel nascondersi, quell’evitare di parlare. E mentre capiva si chiedeva che diavolo poteva fare con un essere così sfuggente da apparire freddo per anni, prima di tirare fuori un carattere tutt’altro che freddo. Riconobbe il suo sguardo offeso quando aveva chiesto chi era il padre del bambino. Capì ogni cosa ma questo non lo mise in condizioni di agire, nonostante per settimane con quella persona avesse avuto un rapporto tutt’altro che distaccato. Si mise le mani nei capelli.

-Che devo fare?-.

-Cosa ha combinato?- fu la ribattuta di Edoardo. Carlo raccontò ogni cosa.

-Beh sono stupito,- fu la risposta del fratello,- non mi aspettavo un atteggiamento così onesto, addirittura assistere il marito ferito. Non è un atteggiamento immeritevole non trovate?- .

-No, vero. Questo è vero.-.

-Allora perché non proseguire per questa strada, mi sembra la cosa migliore, fate leva sul suo spirito di collaborazione, se il figlio è vostro Emma non può esimersi dalle sue responsabilità.-.

Mentre questa conversazione aveva luogo, Agnese stava ancora pensando a come scappare.

-Emma… Non credo che la chiamerò mai più così sapete Edoardo. Credo che Agnese le si addica molto di più come nome a questo punto.-.

Edoardo sorrise.

-Adoro il tabacco da pipa.- disse.

La discussione con Edoardo gli aveva chiarito le idee e Carlo era molto più tranquillo, non aveva alcuna intenzione di lasciare le cose come stavano, pensò immediatamente di spostare le sue stanze nelle stesse della moglie, ma poi ci ripensò, era lei che doveva trasferirsi nella sua ala del palazzo, le avrebbe fatto trovare le sue stanze chiuse e lei non avrebbe avuto scelta, avrebbe dovuto parlare con lui.

Il resto del pomeriggio li vide divisi, tutto scorreva senza che niente sembrasse anomalo e verso sera Agnese si diresse verso le sue stanze per cambiarsi e riposarsi, le trovò serrate.

-Ma che sta succedendo?!- chiese alla cameriera che le si parava davanti.

-Ordini del padrone. – ribatté la stessa. E la lasciò senza scelta. 

-E va bene, andrò a parlare con il “padrone”, ma devo cambiarmi per la sera non è possibile!- fu la risposta impotente. Agnese si diresse verso l’ala del Conte senza fermarsi a salutare nessuno, il suo passo scorreva affianco a tale immensità e raffinatezza senza accorgersi della bellezza che la circondava, presa dai suoi pensieri. Di fronte alla porta principale Agnese si fermò, indecisa, prima di premere la maniglia ed entrare. Carlo era seduto alla scrivania che la aspettava.

-Avetepaura di me?- fu la prima domanda che gli affiorò alle labbra quando la vide entrare lentamente dalla porta; – Non sono il vostro patrigno, sapete?- continuò.

Lei si decise a guardarlo negli occhi, quelle iridi scure che per tanto tempo aveva evitato ora erano lì, splendenti e funzionanti, di fronte a lei. Non poteva più scappare, era tutto troppo chiaro e palese.

Dalle sue domande aveva dedotto che il fratello Edoardo aveva raccontato al conte tutta la sua storia. E a che pro avrebbe dovuto ribellarsi? Rimase ferma con la bocca socchiusa in un’espressione di ammirazione e stupore per quello che le accadeva. SI avvicinò e con una mano gli tocco il viso, come se fosse stata lei ad essere cieca, o forse per sentire, di nuovo e finalmente, quella vicinanza che aveva perso con la sua fuga, e che ora voleva ancora.

-Non avete nessun motivo per fuggire da me Agnese.- fu il commento di lui. Aveva alzato la testa, sotto la sua mano, come a offrirle il suo viso. 

-Non so perché fuggo, Carlo. Nessuno a corte sa la mia storia.- rispose lei. Ancora stupita delle sue parole.

-Non c’è bisogno che la sappia nessuno.- disse lui- Se volete tenerla per voi e assecondare il vostro patrigno fate pure. Ma non fingete con me di essere qualcuno che non siete.- Carlo le prese la mano, -E non tenetemi nascoste le cose belle che fate per me.-disse prima di baciarla.

Agnese Camellini

joy.indivia.net

 

 

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