Invernale di Dario Voltolini scandaglia il particolare per esaltare il quadro generale, entra nel dettaglio riuscendo ad imprimere concretezza quotidiana ai pensieri vaganti. Con una scrittura che trova inventiva e sentimento senza la ricerca di una facile pietà, ma anzi permeata di un sano e costante dubbio, l’autore imbastisce un racconto la cui ricchezza si trova con stupore nella pulizia, nel risalire i pensieri con passo incerto ma espressività debordante.
Invernale di Dario Voltolini
Tu non è che la pensi, questa attesa, tu non so nemmeno se la vivi o la subisci o la abiti: forse – ma proprio forse (non so niente, ma niente!, spaventosamente niente) – tu semplicemente la sei.
Su questo sito avevamo parlato de Il Giardino degli Aranci (leggi qui), la precedente prova di Dario Voltolini, ed ora che l’anno ci ha portato questa nuova pubblicazione, è possibile dirlo con maggiore vigore: Voltolini incanta con una scrittura che sorprende proprio dove non lo si aspetterebbe. Certo, non sarebbe sorpresa se fosse attesa, ma la prosa di Voltolini è così poeticamente concreta da insinuarsi come un dubbio ineludibile, in grado di cesellare il normale flusso attraverso una torsione di sensibilità.
In questo caso la prosa è al servizio della storia di Gino che fa il macellaio al mercato di Torino, quando una ferita al dito durante il taglio di uno degli animali procura conseguenze che vanno al di là dell’immediata preoccupazione, fino ad arrivare alla scoperta di un cancro che la famiglia tenta di curare fino ad un centro specializzato in Francia. Della famiglia fa parte il figlio Dario che racconta la storia che da un lato si conclude con la morte del padre, dall’altra si proietta verso un futuro di eredità da portare e speranza da invocare, laicamente intrisa della figura paterna in carne e ossa.
La scrittura di Voltolini scandaglia il particolare per esaltare il quadro generale, entra nel dettaglio riuscendo ad imprimere concretezza quotidiana ai pensieri vaganti. La narrazione è quella del figlio Dario che sposta il baricentro durante il libro, dapprima incentrato sul padre in un susseguirsi di ipotesi sentimentali per coglierlo anche laddove non poteva seguirlo, per stanarne la vita minuta che gli apparteneva, in seguito spostato su sé stesso, sul proprio modo di vivere il percorso doloroso del padre, sul proprio approccio ad una decadenza così vicina eppure così sfuggente. Con una scrittura che trova inventiva e sentimento senza la ricerca di una facile pietà, ma anzi permeata da un sano e costante dubbio, l’autore imbastisce un racconto la cui ricchezza si trova con stupore nella pulizia molto centrata, nel risalire i pensieri con passo incerto ma espressività debordante.
Corpo e pensieri
Per tutto il giorno lui però pensa a quella esitazione. Meglio: per tutto il giorno lui dimora nel tempo che si è manifestato in quella esitazione. Non ha un pensiero con domande e risposte – perché ha esitato? cosa lo ha distratto? quale pensiero o immagine o ricordo lo ha visitato? – niente di tutto questo, ha solo un luogo di tempo che resta lì, galleggiando tra tutti gli altri tempi. Lui gli è andato nell’interno. Lui non riflette, non cerca di capire, lui ci sta dentro, a quel tempo, e lo vive ancora, sebbene quello se ne sia già volato via.
Il racconto comincia con una grandiosa descrizione del lavoro di Gino nella macelleria del mercato, un affresco di una vividezza impressionante, una danza tra il macabro e il circense che coinvolge clienti e macellaio, un incastro perfetto di movimenti che vede l’apice nei tagli di Gino, nell’esattezza delle incisioni inflitte a quella carne morta ma che dà nutrimento sia a chi la compra sia a chi la vende. È dalla ritualità di questo mondo che Gino viene catapultato fuori, o meglio, vi scivola via impercettibilmente, a piccoli ma significativi passi, avvicinando un isolamento irraggiungibile, una lateralità del mondo che si fa nicchia privata.
Il lavoro di Gino e le suggestioni di Dario si incrociano in modo straordinario per dare vita ad un connubio che l’occidente ha sempre teso a dividere: corpo e mente. La decadenza fisica di Gino è un contraltare beffardo al suo macellare gli animali morti, un contrappasso esagerato rispetto alle regole e ai motivi di quella macellazione, ma inebriante se specchiato nella teatralità dei gesti compiuti facendo quel lavoro. La quotidianità di Gino ha una precisione che si rivela nei tagli stessi della carne e il suo corpo decade proprio nel perdere via via quella precisione, quell’esserci pienamente con cui ha sempre condotto il proprio ruolo, essere fisicamente presente.
In contemporanea anche la mente di Gino va disorientandosi, perdendo ogni appiglio e inoltrandosi in una nebbia personale. Dario arranca nel cercare di descrivere il depotenziarsi dei pensieri, la deviazione inusitata dei comportamenti, ma è proprio questa ricostruzione approssimativa, quasi invocata, ad avvicinare padre e figlio. Il depotenziamento di Gino, la perdita di normalità, è il luogo e il tempo ricercato da Dario, è lo spunto per insinuarsi nei pensieri paterni, laddove immaginare diventa un atto di coraggio, l’affrontare una mano tesa al ricordo. In fin dei conti non serve l’esattezza descrittiva, quella a cui approda Dario è una meta ben più agognata e personale: l’incontro con suo padre su un terreno privilegiato, la capacità di dare voce al loro dialogo.
Dario Voltolini – Invernale – La nave di Teseo