Abbiamo intervistato Fabio Bacà, autore di Benevolenza cosmica, tra fortuna e sfortuna, filosofia occidentale e orientale e approfondimenti sul suo primo libro. Buona lettura.
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La prima domanda è d’obbligo: come è nata l’idea per Benevolenza Cosmica? L’idea mi è venuta a seguito di un periodo non proprio piacevole che ho vissuto tra l’inverno del 2014 e la primavera dell’anno successivo: avevo perso il lavoro e ho cominciato a soffrire di un paio di disturbi (uno dei quali alla macula dell’occhio sinistro: un vago richiamo al problema ben più serio che rischia di avere Kurt all’inizio del romanzo) apparentemente non collegati tra loro. Al che mi sono detto: “ok, Fabio, tutto va male e quindi sei infelice. Ma sei sicuro che se tutto – ma proprio tutto – andasse bene saresti felice?”. Ho trasposto il dilemma su un giovane londinese esperto di statistica e ho seguito l’ispirazione.
Fortuna e sfortuna che cosa hanno in comune? Io non sono seguace di alcuna particolare religione, ma apprezzo molto i principi del taoismo, che è il culto di riferimento della filosofia alimentare a cui mi sento più affine – quella macrobiotica. Ebbene, per il taoismo non c’è alcun fenomeno universale che sia totalmente YIN o totalmente YANG: se sostituiamo impropriamente alle parole cinesi i termini Fortuna e Sfortuna, notiamo che la loro interdipendenza è per certi aspetti evidente (a un periodo di grande fortuna deve necessariamente corrispondere uno di poca sfortuna), per altri, appunto, più sfumata (una grande fortuna contiene sempre qualche elemento di sfortuna). Credo, in definitiva, che tutto vada relativizzato e inserito nell’alveo di una buona dose di ragionevolezza e fiducia, che rimane il modo migliore di accogliere la buona o la cattiva sorte.
In Benevolenza cosmica, oltre a molti sondaggi ovviamente, compare una massiccia dose di filosofia europea ma anche qualche riflessione indiana. Qual è il tuo rapporto con queste materie? Io non sono un esperto di filosofia, ma ammiro le intuizioni elaborate dai più grandi pensatori occidentali e orientali con i cui scritti mi è capitato di venire in contatto. Il mio rapporto con essi rimane ispirato alle parole del Buddha: “(…) non credere nell’autorità dei maestri o degli anziani, ma dopo un’attenta osservazione e analisi, se ciò concorda con la ragione e sarà beneficio di tutti, accettalo e vivi in accordo con essa”. Nessun problema nell’accettarlo: per quanto riguarda vivere in accordo, bè, si fa quel che si può.
Una piacevole sensazione, in buona parte del libro, è che giochi, o almeno usi l’ironia, con materie molto sensibili (destini, fato, morte, ecc). È così? Hai centrato in pieno il bersaglio. D’altra parte, se consideri il periodo non proprio semplice durante cui ho scritto Benevolenza Cosmica, avevo due strade: o lasciarmi ispirare dalla depressione, e scrivere un romanzo altrettanto cupo, oppure cercare di sdrammatizzare e spruzzare di ironia qualunque aspetto della vita umana che avrei descritto.
Il personaggio di Kurt per metà libro è quasi odioso, è una mia sensazione o è un effetto voluto? Non so se è odioso. Ho letto o sentito molti aggettivi associati a Kurt, da critici e lettori, e io concordo con tutti, nella misura in cui rispetto il filtro cognitivo ed emotivo di chiunque. A me sembra più una vittima di sé stesso e della strana società in cui gli (ci) tocca vivere. Non è un caso che alla fine del libro, dopo tutto quello che gli capita (e da cui si presume che qualcosa impari), diventi sensibilmente più simpatico.
Come mai l’ambientazione londinese per il tuo romanzo? Nessun istinto esterofilo o anti-italiano. Avevo semplicemente bisogno di una metropoli più grande e impersonale di Roma o Napoli per avere uno sfondo credibile a tutte le bizzarre vicende che capitano a Kurt. Ho scelto Londra, e non Parigi o Berlino, perché parlo un po’ di inglese: il mio francese è indecente (hai presente Totò che parla al ghisa milanese in piazza del Duomo?) e in tedesco so contare fino a dieci.
Qual è il filosofo che ami di più o con cui ti sei confrontato più spesso? Ho sempre ammirato Eraclito e Lao-Tsu, che mi sembrano accomunati da tante cose pur appartenendo a contesti culturali non proprio affini. Per il resto, ho appena finito il manuale di Epitteto e ora sto leggendo Seneca. Lo stoicismo mi affascina perché ho creduto per decenni di essere in disaccordo con i suoi principi teoretici. Ora non ne sono più tanto certo.
C’è un genere letterario che non hai mai affrontato ma con cui ti cimenteresti volentieri? Bé, essendo questo il mio primo romanzo, direi che di generi letterari devo ancora affrontarne parecchi. Da adolescente credevo che sarei diventato un epigono di Stephen King, perché amavo l’horror. Poi ho cambiato radicalmente scenari. Di sicuro non scriverò gialli, che detesto cordialmente. Dubito anche che leggerai mai qualcosa del sottoscritto che somigli a I Ponti di Madison County o L’uomo che sussurrava ai cavalli. Ho spesso pensato che mi piacerebbe scrivere un saggio, tra qualche anno. Si vedrà.
Francesco Bacà – Benevolenza cosmica