La serie TV The man in the high castle, tratta dal romanzo di philip k. dick, è la trasposizione accurata della filosofia e del messaggio dell’autore
Nel documentario visibile gratuitamente su Rai Play intitolato “Philip K. Dick, fantascienza e pseudomondi”, la moglie dello scrittore racconta di come suo marito scrivesse fino a sedici pagine al giorno, quotidianamente. Segno della prolificità magnifica che investe lo scrittore, l’uomo, il visionario. Certo per Dick scrivere molto era anche l’unico modo di sostentarsi, visto che l’unico modo di lucrare coi suoi libri era venderli in serie come romanzetti di fantascienza, andando a soddisfare la nicchia di lettori nerd di cui il genere ha sempre goduto.
Letteratura bassa, da ragazzini o da sfigati, senza meriti stilistici, questa da sempre e ovunque (non pensate che i critici americani siano meno snob) è stata la critica ai libri di Dick, ritenuti al più delle opere divertenti. Tutt’altro era l’obiettivo dell’autore che ossessionato dall’escatologia nella scrittura vedeva la possibilità di consegnare messaggi da altri mondi.
The man in The High Castle, finalmente arriva il messaggio di Dick
Col cinema andò meglio, certo dopo la morte dell’autore, perché l’adattamento di Do Androids Dream of Electric Sheep? (Gli androidi sognano pecore elettriche in Italia per Fanucci) trasformato da Ridley Scott in Bladerunner, arriverà troppo tardi, solo qualche mese la scomparsa di Dick.
Ma da quel momento qualcuno iniziò a cogliere la profondità esistenziale e storica delle tematiche di Dick, vedendoci spunti antropologici, filosofici, di riflessione politica.
La politica in Philip K. DIck
Quando Dick pubblica la The man in The high Castle (in italiano La svastica sul sole edita da Fannucci), le cose cambiano leggermente, è un romanzo diverso e dichiaratamente politico, o meglio l’analisi di una possibilità politica. Cosa sarebbe successo se avessero vinto i nazisti la seconda guerra mondiale?
La domanda è inquietante, ma la risposta è peggio, perché ci obbliga a interrogarci sul nostro mondo per differenza rispetto ad altri. Vecchia tematica questa di Dick che infatti intitolò una conferenza, poi diventato saggio cartaceo, Se questo mondo vi sembra spietato dovreste vedere gli altri. Come dire guardando si impara, forse.
Quando molti di noi hanno scoperto l’adattamento al format serie televisiva di Una svastica sul sole si sono chiesti come avrebbe tradotto in immagini una complessità come quella descritta del libro. Complessità non solo di astrazione, immaginare un mondo governato e non solo brutalizzato da nazisti e giapponesi è di per sé un esperimento più complesso del previsto, non solo difficiltà esecutrice, ma anche complessità estetica, di forma.
Mettiamo in chiaro subito una cosa: The Man in The high Castle è liberamente tratto dal romanzo di Dick, quindi chi si aspetta la mera riproduzione con dovizia di particolari non solo rimarrà deluso, ma gli consiglierei anche di leggere meglio le descrizioni dei prodotti che decide di consumare in generale, per evitare brutte sorprese.
Anzi io direi che sta proprio nella libera reinterpretazione dell’opera originale il miglior spunto del gruppo di lavoro di The Man in The high Castle. Liberatasi dal riprodurre il romanzo originale, la serie racconta bene i personaggi, aggiungendo o togliendo qualcosa, ma soprattutto permettendo di cogliere lo spirito di Dick anche a chi non ha mai letto un suo libro.
C’entra sempre Ridley Scott
Non è un caso che tra i produttori risulti proprio quel Ridley Scott che si beccò i complimenti da Philip Dick per l’adattamento di Blade Runner. Ovvio che Scott da grande amante di Dick ha voluto lavorare soprattutto alla diffusione del messaggio dello scrittore oltre che al narrare una storia. La filosofia dei mondi paralleli, delle cose accadute in base alle coordinate geo-spaziali in modi differenti è immediatamente accessibile e sapientemente calata nell’accattivante narrazione stile spy-story.
Io trovo ci sia molto il cuore di Scott in questa serie, ma è un’opinione personale.
Quello che non è opinione è la ricostruzione del mondo post vittoria del nazismo che è davvero eclatante. Oltre a croci celtiche diffuse sui grattacieli di New York e stendardi nazisti in ogni dove, quello che colpisce davvero nell’adattamento americano della cultura nazista sono i piccoli particolari contaminati perfettamente con l’immagine spensierata e stereotipata degli anni ‘50 americani. La casalinga perfetta descritta in tutte le tovagliette per la casa col sorriso e la torta di mele in caldo, diventa una perfetta componente nazista dedita alla delazione, orgogliosa del suo uomo e con una scatola di psicofarmaci pronto ad ogni the.
La precisione e i modi un po’ ingessati degli anni del post guerra (reale) americano secondo gli autori si sarebbero sposati proprio bene anche con la cultura dell’omologazione nazista.
Azzardo? Forzatura? Non importa qui discuterne, quello che conta è che funziona molto durante la serie.
Non parlerò a lungo dei personaggi perché non voglio svelare troppo né del libro né della serie. Quello che però mi pare di poter dire in modo abbastanza sicuro è che le fila filosofiche sono affidate a Nobusuke Tagomi, Ministro del commercio “afflitto” da visioni e all’antiquario Robert Childan. Childan introduce un tema importante nel libro e ancora di più nella serie: il rapporto tra vincitore, sterminatore e vinto.
Gli ebrei americani sconfitti e infelici per il dominio nazi-giappo loro malgrado si ritrovano ad essere “resistenza”, ovvero da minoranza discriminata a gruppo di lotta alla dominazione straniera. In questa sacca di opposizione al regime mondiale della duplice alleanza (nel libro l’Italia ha una parte marginale, nella serie scompare il terzo alleato) incontriamo figure come quella di Frank Frink e Juliana Crain, centrali nel romanzo ma giganti nella serie, che vivono sulla loro pelle la difficoltà di ogni giorno nel restare liberi quando il potere vuole a tutti i costi farti soccombere.
Chiaramente nella dialettica di Philip Dick la provocazione è duplice: l’attuale popolo americano non è esso stesso conquistatore rispetto ai nativi indiani? Cosa rende buono un vincitore o un altro?
Provocazione che ovviamente non si risolve a favore del regime nazi-giappo, ma che fa riflettere nel campo delle possibilità alternative della storia.
The man in The High Castle, la colonna sonora
Altra chicca non scontata della serie prodotta da Amazon Studios è la colonna sonora, “Edelweiss” cantata da Jeanette Olsson è stata la base per costruire una serie di immagini di un ipotetico passato che avrebbe potuto essere stato, costruita non a caso dallo studio Elastic del bravo direttore artistico Patrick Clair, già noto per le sigla di Games of Trones, fra le altre.
Ma è l’atmosfera generale che The Man in high Castle ci regala a rendere questa serie davvero una buona introduzione al mondo di Philip Dick, merito di una fotografia “radicale” e dell’ottima scelta sia ambienti originali che di ricostruzioni. Aver virato la color correction accentuando colori e ombre, dona alla narrazione una sorta di basso continuo sulle budella che scava angosce profonde. In questo vi è una differenza sostanziale tra serie e libro, dove Dick immagina o almeno fa trasparire anche un senso di rinascita, cosa che risulta più offuscata nella serie televisiva.
Chi non si è mai avvicinato a Philip Dick scoprirà un mondo nuovo e affascinante in cui dare un nuovo significato alla fatidica parola: fantascienza.