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LOVE, Thegiornalisti: quando parlarne male diventa troppo facile

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Parlare male dei Thegiornalisti è troppo facile, troppi elementi portano in quella direzione: un cantante paraculo come pochi, dei testi che sembrano usciti usciti da una Smemoranda del 1990 (non quelli bellissimi di Gino & Michele, ma quelli proprio dell’ipotetico proprietario sedicenne della Smemo), un successo pazzesco, dischi in classifica, pezzi in radio e soprattutto un’allure da band figa che ce l’ha fatta

Però, ripeto, tutto questo è troppo facile. Andiamo a guardare bene le cose e cerchiamo di capire come il buon Tommaso ha portato in Paradiso questa band. Ok, la battuta fa schifo, perdonatemi. Love, ad esempio, è un bel disco, diciamolo subito, suonato bene e prodotto meglio. La contemporaneità elettronica viene smorzata, o meglio incrociata, con una certa malinconia anni ottanta, divenuta un marchio di fabbrica della band. Il disco si apre con Ouverture, bel pezzo strumentale che pare voler annunciare una certa maturità musicale, è paracula come quasi tutto quello che fa la band romana, ma oggettivamente è un buon brano. E non vedo perché non debba essere detto.

Zero stare sereno, invece, è il pezzo più brutto del disco, con un testo decisamente imbarazzante è una base musicale divisa fra ballad e tecno che, anche al quarto ascolto, non convince. La domanda è: quale scelta masochistica ha portato la band a inserirla al numero due della tracklist? Non lo sapremo mai, un po’ come i segreti che Andreotti si è portato nell’aldilà. New York è una canzone bella, tipica di chi ha passato una notte con troppo alcol in corpo e il giorno dopo piange un amore perduto, Una casa al mare è una canzone che convince abbastanza soprattutto per il ritornello violento nella linea melodica che inquieta grazie al testo pieno di angosce tipiche della mezza età.

Controllo e Love sono due escursioni nel cantautorato romano con riferimenti a noti songwriter (Venditti su tutti), ma diciamo che sulla malinconia il buon Paradiso ha ben poco da farsi insegnare.

Milano Roma è un pezzo tecno che per certi versi potrebbe essere uscito da un Daniele Silvestri poco ispirato, mentre per L’ultimo giorno del mondo vale il discorso fatto sopra per i pezzi più cantautorali, più malinconici. Questa stupida canzone d’amore deve veramente troppo a Coez, Calcutta e tutto quello che si sente in radio oggi, Felicità puttana scivola leggere e piacevole, tra malinconia e voglia di rimanere assenti ancora un po’ dalla realtà. Magari spaparanzati sotto un ombrellone, magari a Fregene, anzi meglio, a Riccione. E ho fatto pure la rima.

Dottor House, invece, è proprio brutta, cioè l’esperimento ci potrebbe pure stare, ma scritta in quel modo sembra più un pezzo adatto a una trasmissione della Domenica pomeriggio. Certo, nel pezzo compaiono tutte le malinconie e le mancanze di un giovane trentacinquenne, è suonata anche bene, ma qualcosa in più non si poteva davvero fare? Un elemento disturbante, qualcosa che riesca anche a farti pensare, non solo scivolare via il tempo.

Questa è la sensazione che mi rimane addosso dopo aver ascoltato il disco intero tre o quattro volte, un disco piacevole, anche scritto onestamente e persino suonato bene. Eppure, nonostante ciò, è palese la furbizia che ne sta alla base. La senti, la mastichi e, se non sei il règazzì a cui interessa solo urlare nei palazzetti “completamente soldout”, dopo un po’ ti stufi.

Perché fare un disco così attento a non dispiacere a nessuno? Ne avete davvero bisogno amici Thegiornalisti? Da adesso mi rivolgo a voi in prima persona, tipo appello alla nazione:

Io credo, caro Tommaso, che tu sia una bella testa, intelligente, colto e da instagram apprendo pure che ti piace la boxe, ma allora perché hai deciso di cristallizzarti nello steoreotipo del simpatico ubriacone da facoltà di Filosofia? Una band italiana che ha il vostro successo e la vostra capacità di muovere numeri, deve avere più coraggio, deve sfidare il proprio pubblico, deve sfidare le radio e imporsi. Siete bravi, ormai lo sanno tutti, e allora regalateci un disco da amare, che racconti ancora di più quell’angoscia strisciante che Tommaso Paradiso lascia trapelare quando, tra un panino e una bicicletta rossa Atala, gli sfugge per un attimo la posa da ragazzotto simpatico perennemente in balia di sentimenti adolescenziali. Sarebbe un disco adulto, magari non da soldout, ma di certo più vero.

Ora, rileggendo quello che ho scritto, ammetto che potrei anche mandarmi a quel paese da solo, ma spero che la band romana capisca l’affetto con cui dico quello che dico.

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