Ecco, ha finito di parlare. Ed ora, come mi accade sempre più spesso ultimamente, sono davanti alla scelta: dirglielo o non dirglielo? Esprimere i miei sentimenti o tenerli, come ho fatto sino ad ora, per me. Fino ad oggi la scelta è stata chiara: non dire nulla, mantieni tutto com’è. Ma, ogni volta che mi trovo da solo con lei, arriva il momento in cui la scelta si rinnova, si ripropone prepotentemente ed io la subisco più che affrontarla.
Ora è uno di quei momenti. Lei ha finito di parlare, accalorata e decisa come sempre. Se glielo dico cambierà tutto, mi espongo, che è il cambiamento peggiore che io riesca ad immaginare. E se non cambiasse in peggio? È questa mia indole fifona a vedere il cambiamento come peggiorativo, questo mio vivere ai margini di me stesso per non dover rendere conto a nessuno.
Però i sentimenti, a volte, come in questo caso, sono forse troppo forti per essere imbrigliati. Non è sempre stato così negli anni della nostra conoscenza. All’inizio mi era addirittura indifferente. Con il tempo è montato qualcosa in me fino quasi all’esplosione, qualcosa che mi riesce sempre più difficile tenere nascosto. Non a me, sia chiaro, agli altri. Non so nemmeno bene come e perché abbia cominciato a sentirmi così, conosco solo il punto di irraggiamento di questo stato interiore: lei.
Che poi nasconderlo agli altri è diventato pressoché ridicolo. Agli amici più intimi l’ho confessato, vedendoli così dividersi tra i sorpresi e i veggenti, quelli che “io lo sapevo, ti conosco troppo bene per non accorgermene”. Conoscermi troppo bene? Non so se mi spaventa di più la possibilità reale che qualcuno mi conosca così bene, addirittura meglio di quanto mi conosca io, o la presunzione che qualcuno possa pensare di conoscermi tanto bene da vantarsene. Agli amici meno prossimi, quindi a tutto il mondo in pratica, non l’ho certo detto, ma che se ne siano accorti è palese. Lo si capisce dagli sguardi, dalle battute, dal disagio, da tutto ciò che infrange il normale flusso della condivisione e che mi fa sentire in colpa e in imbarazzo, creando quei momenti in cui vorrei sprofondare o essere altrove, o semplicemente un giocatore di poker sentimentale più abile.
Ed ora sono qui, come altre mille volte, incastrato tra l’urgenza di dirglielo e il timore di apparire impulsivo. Cosa accadrebbe se non glielo dicessi già lo so, è quello che sto vivendo dai circa quattro anni in cui me lo tengo per me. No, non circa quattro anni, sono quattro anni, due mesi e tredici giorni. Lo so non perché sia un contabile tanto preciso della mia vita, ma perché la prima volta in cui mi accorsi di questo sentimento fu al mio trentesimo compleanno. Ho bene in mente quell’attimo in cui il sentimento mi diede il primo schiaffo. Non credo proprio che sorse dal nulla, di certo ha lavorato in me per diverso tempo, ma il detonatore fu piazzato proprio lì, in mezzo alla gente, tra gli amici festanti e il mio essere ubriaco fradicio.
Cosa accadrebbe se glielo dicessi invece non lo so, posso solo ipotizzarlo. Tra le ipotesi più probabili campeggia la peggiore: quella di perdere un’amica. Sì, il rischio di rovinare il rapporto è serio, soprattutto considerando il suo carattere, la sua impulsività, la sua idiosincrasia per le vie di mezzo, che poi dovrebbe essere parte integrante di quel che ho iniziato a provare. Tra l’altro, fattore secondario ma non troppo, probabilmente muterebbero anche gli equilibri con tutti gli altri del gruppo.
Però quanto posso andare avanti a tenermi tutto dentro? Ma lei non se n’è proprio accorta? Possibile che non abbia capito tutto? Eppure dicono le donne siano particolarmente intuitive, ancor più se si parla di sentimenti, se di sentimenti di un uomo poi. Magari fa finta di nulla e questa potrebbe già essere la risposta: fa finta di nulla perché preferisce così. È come se mi avesse già detto tutto, non può che essere così, non ho nulla da esplicitare. Ma lo sfogo dove lo mettiamo? Un sentimento del genere ha bisogno di essere urlato al mondo, di percorrere le strade della vita e fare il suo corso. Cioè, io ho bisogno di tutto questo, di concretizzare ciò che aleggia, che lei possa toccare con mano ciò che presuppone.
Come sempre ho poco tempo, pochi secondi. Perché l’impellenza del desiderio di parlarne si palesa sempre all’improvviso, non il lavorio quotidiano che quello è un costante sottobosco, intendo l’urgenza di reclamare.
Ora per esempio ha finito di parlare e mi sta dicendo che deve andare. Sarebbe addirittura l’occasione migliore: glielo dico e, a prescindere dal risultato, lei se ne andrà. In questo modo le conseguenze saranno diluite, almeno nel primo lasso di tempo, quello più incisivo sull’emotività. Sì dai glielo dico, lei va via, magari accennando solo ad una reazione confusa, ed io potrò crogiolarmi in un’incertezza prolungata.
Sì sì, glielo dico. No, non ci riesco. No no, non ce la faccio, posso davvero andare contro la mia natura? Che sia genetica o sociale o costruita dalla mia occulta volontà poco importa, il risultato sono sempre io. No, non posso. Però, se non dico nulla, come fino ad ora, alla fine è una decisione presa a tutti gli effetti, l’inazione è un’azione, il non detto diventa volontà, il silenzio la mia presenza.
Ecco, si sta alzando, mi ha salutato, credo, perché perso nelle mie elucubrazioni non sono presentissimo. Se ne sta andando, ora posso dirlo con certezza. L’avrò salutata? Non me ne sono reso conto sia se l’ho fatto sia se non l’ho fatto. Ma un fatto è certo, se ne sta andando ed io ho perso l’ennesima occasione per esprimere me stesso, me stesso di fronte a lei, me stesso che si mostra a lei con una verità più profonda. Anche questa volta non l’ho detto, anche questa volta non l’ho mandata a fanculo.