Il suo viso era di una bellezza orientale, aveva forse poco più di 20 anni e, nonostante l’età sembrava essere a suo agio con i voli transoceanici. Era vestita comoda, indossava una tuta, un trucco leggero e i capelli erano raccolti in una coda alta. Ricordo che arrivò al suo posto dopo di me, quando mi indicò che il suo sedile era il 23F, mi alzai e la feci accomodare.
La prima cosa che notai è che non mise nulla nella cappelliera, il suo zainetto lo ripose con dimestichezza sotto al sedile di quello davanti. In fin dei conti era una buona mossa: tutto a portata di mano, non ci avevo mai pensato. Io, che per lavoro volo spesso, non ci avevo mai pensato. Il fatto è che io con gli aerei e gli aeroporti ho un rapporto strano, mi fanno sempre sentire piccolo. È curioso, ad esempio, come si vivono le ore che passano tra l’arrivo al terminal e l’imbarco vero e proprio, conosci tutta la prassi, hai tutto il tempo per gestire i tuoi spazi e le tue cose al meglio eppure, ogni volta che ti trovi davanti a una scadenza inevitabile come il check-in, si vive il momento in totale affanno. Io a ogni step dimentico sempre qualcosa. Carta d’identità, biglietti, valigie. Bip! Oh, che sbadato, ho dimenticato la cintura. O forse qualche monetina. E guardo il poliziotto e sorrido imbarazzato. E finisce che corro. Corro per sentirmi normale, corro per sentirmi più grande, peggiorando inevitabilmente la mia goffaggine.
Tornando alla mia stupenda compagna di viaggio: la prima cosa che fece quando l’equipaggio decise che dovevamo dormire, fu quella di aprire la copertina di pile che la compagnia offre per la notte e coprirsi le gambe. Poi si tolse le scarpe e i calzini, si spruzzò un po’ di profumo sui piedi e indossò un altro paio di calzini, quelli per la notte, appunto. Non so che profumo fosse, credo che nemmeno lo sentii, però ricordo che stetti circa 10 minuti a pensare se dentro quel flacone spray ci fosse realmente una fragranza studiata per i piedi di una bellissima ragazza su un aereo o, invece, si trattava di un profumo normale utilizzato alla bisogna. Mentre io mi interrogavo lei dispose i suoi oggetti sul tavolino pieghevole, maneggiò con destrezza lo schermo touch di cui sono dotati gli aerei che superano gli oceani e selezionò un po’ di musica. Poi, quando tutto era al proprio posto, diede vita a un bellissimo valzer di movimenti, con epicentro il sedile 23F dell’aereo che da New York ci avrebbe portati a Parigi. L’obiettivo era quello di trovare una soluzione alla scomodità del volo e prendere sonno. Ogni tanto mi toccava dentro e quando succedeva si fermava, si scusava e poi ricominciava la sua danza.
Io, non so perché ma ero già perdutamente innamorato di lei.
Ero perfettamente consapevole che quella che stavo vivendo era una finzione dettata dal calcolo delle probabilità con cui un computer assegna i posti su un aeroplano, eppure, non riuscivo a non dare a quegli occhi, a quel sorriso, a quel muoversi vicino a me, una valenza prossima al destino. Mi venne naturale, forse ne avevo solo bisogno in quel determinato momento. Non avevo il coraggio di parlarle, ma volevo sentirla vicina. Istintivamente mi venne da proteggerla, o meglio, proteggere il suo sonno e quando la hostess passava con qualche snack, la anticipavo pregandola di non fare rumore. Prendevo io i suoi pasti sottovuoto e li appoggiavo sul ripiano di fronte a lei cercando di non fare rumore. Non la guardai mai in faccia, né feci mai un passo verso di lei. In quel momento mi bastava sapere che era lì.
A pensarci bene è stato sempre questo il mio problema. Io mi sono sempre accontentato di quello che avevo. Ho sempre desiderato che tutto restasse cristallizzato, immobile, innocuo. Non ho mai lottato a fondo per la mia carriera, per mia moglie, per la mia vita. Mancanza di autostima, chi può dirlo. Paura, più probabilmente.
Tornando a noi, durante la notte provai a dormire, mi coprii anch’io con la copertina e cercai di sistemarmi alla meglio. Non volevo disturbarla, per cui cercai di prendere sonno restando rigido come un palo. Poi, verso le 23 -che per colpa del fuso potevano essere le 4- persi per un attimo conoscenza. Non ricordo con precisione se dormii veramente, ma mi rendevo conto che il mio corpo lentamente si stava liberando dal mio controllo. Per un insonne, questa è la sensazione più bella che si possa provare. Non credo sognai, anche perché seduti, con la cervicale che spinge, il pieno di immagini e la stanchezza della vacanza, non avrei mai potuto ricordarmi nulla. Dopo qualche minuto venni svegliato da un colpo secco. Aprii gli occhi di soprassalto, ci misi due o tre secondi a capire dove fossi. Cercai il mio comodino ma trovai solo lo schermo touch illuminato a giorno, poi inquadrai la hostess che girava stancamente nel corridoio e capii di trovarmi a forse 10.000 metri sul livello del mare. Non feci nemmeno in tempo a spaventarmi che vidi lei, la mia compagna di viaggio che mi guardava, gli occhi seminascosti dalla coperta. Appoggiò la sua mano sul mio braccio e dopo avermi sussurrato un dolcissimo “sorry”, mi regalò uno dei sorrisi più belli, stanchi, onesti della mia vita. Il tutto durò 4-5 secondi, ma io feci in tempo a essere pervaso da un caldo sotto al collo quasi fastidioso. Volevo parlare, dirle qualcosa, mi limitai a rispondere al sorriso, lei sembrò rasserenata, si girò dall’altra parte, chiuse gli occhi e provò nuovamente a dormire. Io, non presi più sonno.
La mattina arrivò lenta, o veloce, a seconda dell’umore, e ci riattivò. Le hostess si misero a distribuire le colazioni, le madri iniziarono a portare i figli al bagno e noi iniziammo a stiracchiarci pensando che da lì a poco, saremmo giocoforza ritornati alle nostre vite normali. Non trovai il coraggio di guardarla, tantomeno di parlarle. Ma non mi stupii: non ne sono stato capace la notte, figuriamoci di giorno. L’aereo atterrò e io iniziai a recuperare le mie cose: lo zaino era in una cappelliera un poco più in là, l’iPad e i libri sparsi tra il portaoggetti davanti a me e lo spazio sotto i miei piedi. Lei, invece, aspettò di poter uscire dall’aereo con lo zaino appoggiato sul grembo, ordinata e pulita esattamente com’era la sera prima. Ancora una volta non la guardai, però l’occhio mi cadde sul suo biglietto. Anche lei, come me che stavo tornando a Milano, era in transito, ma verso Istanbul. Me la immaginai in qualche mercatino turco, con la reflex al collo e gli occhi pieni di vita. Uscii prima io: fissarla mentre si allontanava sarebbe stato un addio troppo duro da reggere.
Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.