Ma che bella camicetta a fiori ! Non avete sbagliato. Era il mio cervello che commentava la mia splendida camicia a fiori dai colori ocra e marrone. Era stato un gran acquisto al magazzino dei vestiti usati.
Mi affacciai alla finestra e mi misi ad osservare le persone passeggiare nel piccolo parco davanti.
Era un parco adibito ai cani, dove i padroni potevano far scorrazzare le loro bestioline in libertà, almeno fin quando qualcuna di quelle non si fosse azzannata l’un l’altra per un futile motivo o per marcare il territorio. Non puoi pisciare dove vuoi.
A proposito. Mi scappava.
Tornato dal bagno mi accorsi di aver lasciato aperta un’anta dell’armadio. Cristo santo, che sbadato !
A volte succede che passi mille volte da un posto familiare e non vedi quello che un’altra persona noterebbe al primo sguardo.
Notai un intaglio all’interno dell’armadio.
Aveva una forma rettangolare. Sembrava una porta.
Era una porta.
Non mi ero mai accoro che dentro al mio armadio esistesse una porta. Proprio mai.
Non c’era maniglia, né serratura. Ma la mia camicetta a fiori mi aveva reso vispo e brillante e così intuii che la porta funzionava a pressione. Bastava premere con due dita al centro di essa per farla aprire. E infatti, si aprì.
Chissà cosa avrebbero pensato giù al parco.
E chissà cosa avrebbe pensato quella stupida della mia vicina.
La porta dava su una stanzina che, a quanto pare, era sempre esistita giusto dietro il mobile. La stanzina dava su un ballatoio, il ballatoio su una scala e la scala sul buio.
Non vedevo il fondo dei gradini tanta era l’oscurità.
Avrei dato un’occhiata veloce. Dovevo ricordarmi di cambiare l’acqua a Renee.
Renee era la sirena che viveva nella mia vasca da bagno.
Dovevo cambiarle l’acqua due volte a settimana. Lei era molto felice di questo. Esprimeva la sua gioia muovendo la coda e permettendomi, talvolta, di toccare il seno turgido e freddissimo. Ma solo qualche volta.
Comunque, dicevo, avrei dato un’occhiata veloce perché la curiosità era troppo forte.
Via via che scendevo la scala di legno potevo intravedere il pavimento in fondo alla rampa. Anche quello di legno e immerso nell’oscurità. L’unica luce era quella proveniente da su, da camera mia, attraverso la porta dell’armadio.
Arrivai in fondo, e con soddisfazione guardai in alto la rampa, e, oltre, il quadrato di luce della porta che avevo appena scoperto. Intorno a me buio totale. Un buio così denso da sembrare melassa. Non potevo nemmeno vedere i bellissimi colori della mia fiammante camicetta ocra e marrone.
Poi, però, successe qualcosa. Qualcuno parlò.
Era una voce da bravo presentatore, di quelli che intrattengono la platea tra un ospite e l’altro. Parlò con voce nitida e squillante.
“ Signore e signori…. Il signor H ! “.
Il fondo della scala allora si illuminò d’improvviso.
Luci, neon, maxischermi, ballerine, pallettes, coriandoli, suoni, telecamere, faretti, mixer, televisori, tavoli in cristallo, ma soprattutto una platea entusiasta e delirante.
Seguirono applausi a scena aperta, uno stacchetto musicale e le ballerine in abiti succinti che sculettavano davanti a me.
Erano tutti lì per me. Tutti in piedi ad applaudire.
Il pubblico mi stava osannando, il presentatore mi osservava con invidia, le ballerine con lussuria e le telecamere avrebbero voluto entrare dentro di me, per me, con me nelle case dei telespettatori.
Ancora luci, tecnici, immagini sugli schermi.
Gigantografie di me.
Poi tutti seduti e due poltrone in raso verde che comparvero magicamente dietro di noi.
Il bravo presentatore si sedette e mi invitò a fare lo stesso.
A quanto pare era un’intervista.
Ma che cosa mi avrebbero chiesto se io ero il signor nessuno, se non avevo nemmeno un cognome tanto che tutti mi avevano appena chiamato il signor H. ?
Non avevo amici, non avevo parenti, non avevo una fidanzata e nemmeno un cane. Avevo una sirena nella vasca da bagno che non parlava la mia lingua e che abitava con me solo perché non riusciva più a trovare la strada del mare.
Allora perché tutta quella gente era lì per me ?
Tutti quei pensieri, e anche molti di più attraversarono il mio cervello giusto il tempo della pubblicità, perché poi tornammo in onda e l’intervista doveva iniziare.
Luci un po’ più basse, pubblico in silenzio, tre, due, uno…via.
“ Signor H. allora, intanto benvenuto e grazie di aver accettato questa intervista in esclusiva per noi “. Applausi.
Applausi deboli. Applausi smorzati.
“ Io so che la gente, dico tutta le gente, ha una domanda da farle… e forse lei si sta immaginando quale sia… “
Momento scenico di attesa.
“ Ci dica, come si vive sulla luna. E perché ha deciso di tornare sulla terra ?”. Pausa. Lunga pausa. Lunghissima pausa.
Il presentatore, il bravo presentatore accavallò la gamba per pregustarsi la risposta, lanciando sguardi ammiccanti verso il pubblico in sala prima, e verso la telecamera poi.
Non avevo capito la domanda in realtà. Sperai che quel momento durasse tanto a lungo da poter capire che cosa voleva tutta quella gente da me, che cosa mi stessero chiedendo, ma soprattutto cosa diavolo gli saltava in testa pensando che io venissi dalla luna.
Silenzio. Tutto il pubblico, compreso quello a casa aspettava la mia risposta.
Io per un attimo cercai con lo sguardo la scala che mi avrebbe riportato al sicuro, in casa mia. Non c’era più.
Non mi restava che inventare. Non avevo scelta. Avevo tutti gli occhi su di me.
Diedi un colpetto di tosse, mi sistemai la camicetta e incrociai le gambe in procinto di proferir parola.
Tutti, ma proprio tutti, pendevano dalle mie labbra. Ero al centro del mondo. Avrei potuto dire qualsiasi cosa. Ero Dio.
Allora capii che potevo dire quello che volevo, e lo feci.
“ Beh… “ . Brusio in sala.
“ Beh, dicevo. Non è stato facile… “ agitazione ed eccitazione tra il pubblico.
Poi partii per la tangente.
“ Non è stato facile lasciare i miei amici, gli alieni intendo, su alla base lunare. Hanno fatto una bellissima festa di addio in mio onore. C’erano tutti, proprio tutti. Abbiamo bevuto, ballato, mangiato e poi ballato ancora fino a notte tarda. Le notti sono molto lunghe, come ben sapete, sulla luna.
Diciamo che mi hanno voluto bene e che forse me ne vorranno sempre. In fondo ero l’unico essere umano dentro la base e se è vero che all’inizio l’inserimento è stato complicato a causa della diffidenza degli abitanti di Trigon, poi le cose sono state molto più semplici, soprattutto quando ho imparato la loro lingua e i loro dialetti. “
L’avevo sparata grossa. Ma l’avevo sparata bene.
Il presentatore, le ballerine, i tecnici del suono, i cameraman, il pubblico in sala e anche quello a casa, tutti ma proprio tutti erano a bocca aperta.
Poi il conduttore, scosso da una voce nell’auricolare in contatto con la regia riprese la parola esterrefatto e meravigliato.
“ Cioè, lei ci sta dicendo che non era solo dentro la base lunare ?”
“ Certo che no ! Come potete pensare che io abbia vissuto dodici anni lassù da solo. Eravamo un bel gruppo. Si usciva insieme, si facevano le cose. Certo, ci sono stati momenti di tensione, qualche litigio, ma poi tutto si è sempre risolto con il dialogo. Mi hanno fatto anche un regalo, ecco ce l’ho proprio qui. “
Un lunghissimo ooooh pervase la sala.
Aprii il palmo della mano completamente vuota.
“ Mi hanno regalato questo bellissimo braccialetto curatore. Questo ha il potere di curare tutte le malattie, anche quelle mentali, anche quelle per le quali non c’è cura, qui sulla terra.”
Ora si che avevo attirato la loro attenzione, soprattutto perché non avevo niente di niente in mano.
“ Dimenticavo… è invisibile “. Risate, pacche sulle gambe, urla.
Applausi a scena aperta.
L’intervista durò un’ora buona. Risposi in maniera egregia suscitando applausi, grida, risate a crepapelle e momenti di tenerezza. Un’intervista perfetta.
Ero il nuovo Dio del pubblico. Firmai autografi, scattai foto, ricevetti inviti da quasi tutte le ballerine, dai giornalisti.
Il pubblico mi strattonava e invocava la mia vocale muta per stringermi la mano. Salutai tutti promettendo di tornare presto e di raccontare nuove, incredibili avventure.
Fui accompagnato alla scala non senza difficoltà vista la ressa che si era formata.
Mentre risalivo su, verso camera mia, mi voltai e vidi tutta quella folla chiamare il mio nome, salutare e pregare di tornare presto.
Io ricambiai il saluto e poi tutto tornò buio.
Ero sul ballatoio di legno nell’oscurità con la porticina dell’armadio davanti a me. Rientrai in camera e chiusi la porta e poi le ante dell’armadio.
Mi diressi in bagno. Cambiai l’acqua a Renee, la sirena.
Lei mosse la coda per ringraziarmi e offrì il suo seno turgido e freddo. Non avevo voglia di toccarlo.
Tornai alla finestra e mi misi ad osservare le persone passeggiare nel parco con i loro cani.
Chissà cosa avrebbero pensato i miei amici sulla luna di me.
Paolo Innocenti