In Italia, se siete dei creativi, l’equazione è molto facile: freelance = lavoro gratis (o quasi). Non si capisce bene se questo è un retaggio che i vari editori e committenti hanno mutuato dalla società feudale, oppure si tratta proprio una regola scritta del capitalismo moderno
Fatto sta che se vuoi fare un lavoro creativo oggi, per dirla con eleganza, sono cazzi. Preparati a soffrire. Non solo perché come detto prima difficilmente verrai pagato (e se ti pagano sarà poco e se va bene a 90 giorni), ma anche perché in Italia certi mestieri, per quanto richiestissimi, sono riconosciuti tanto quanto il due di picche quando la briscola è a quadri.
Il fatto è che il lavoro creativo vive in un totale corto circuito. Al netto della crisi che dal 2007 ci sta eviscerando le palle (per cui io dico sì freelance, ma la vera definizione è: “precario sfigato”), i problemi di chi fa un lavoro “di testa” sono sostanzialmente ben definiti e si possono riassumere con le quattro fatidiche frasi che un creativo si è sentito dire almeno una volta nella vita:
1) Non è lavoro, è divertimento – Eh, già. Chi scrive, disegna, chi fa video, chi lavora sui social e compagnia cantante, soprattutto se è freelance, non è visto come un regolare lavoratore. Non del tutto almeno. Lui si diverte, lui, agli occhi del committente ha fatto del suo hobby un lavoretto con cui, al massimo, può sperare di tirare su qualche soldino per uscire il sabato sera con gli amichetti. Il lavoro vero è ben altro, scherziamo?
Poi oh, il fatto che un giornale viva di articoli, foto e video, che i social siano una cassa di risonanza fondamentale per qualsiasi tipo di impresa, che il copywriting sia la base di un certo tipo di comunicazione, beh questo è un altro paio di maniche.
2) Siete tanti, ti rimpiazzo quando voglio – Il web ha aperto a tanti migliaia di possibilità, non lo si può negare. Ma ha anche, di fatto, ribaltato il gioco di ruoli alla base di ciò che noi chiamiamo creatività. Tutti, adesso, potenzialmente possono scrivere, fare foto, video etc. Ciò è molto democratico e sta alla base del concetto di rete ma, in qualche modo, ha anche trasformato drasticamente alcune professioni. Un tempo, ad esempio, i fotografi specializzati in prodotto, si potevano contare sulle dita di una mano. Oggi chiunque ha un iPhone può sperare che il suo scatto venga ripreso da qualche organo d’informazione. Stesso discorso per i giornalisti: un tempo c’era il mito del praticantato, della gavetta in redazione, del tesserino da professionista. Oggi chiunque voglia definirsi appassionato di scrittura, o semplicemente appassionato “della qualunque” ha le stesse possibilità di scrivere di chi, invece, giornalista lo è sul serio. È giusto? Potenzialmente sì, almeno credo. Il rovescio della medaglia è che la grande offerta, rende il creativo una pedina facilmente rimpiazzabile, un dramma quando si parla di onorario e correttezza lavorativa. “Ti pago 1 euro ad articolo, ti sta bene? No? E allora ammazzati.”
3) Non mi dai la qualità che cerco – La maggior parte delle persone che fa il nostro mestiere è pagata a cottimo. Più produci, più guadagni. Non ci vuole un genio per capire che con la creatività questa modalità di compenso stride in maniera irreparabile. Se poi la paga è una miseria e tu sei ancora legato al concetto obsoleto che un lavoro serve per vivere, è ovvio che se vuoi mangiare, devi correre. E correre su una tastiera, come dietro a una macchina fotografica, si sa, è deleterio.
4) Mi costi troppo, altrimenti detto: Alla porta ne ho a pacchi che lavorerebbero pure gratis – Non c’è cosa più frustrante, avvilente e deleteria del lavorare gratis e, a quanto pare, nel settore creativo offrire lavoro non retribuito sembra essere la moneta di scambio più utilizzata da chi vuole imparare. Nel mio ambiente si dice che per essere giornalisti è fondamentale essere ricchi di famiglia e questa, a mio parere, è una forma di razzismo pessima, equivalente a quella che coinvolge il colore della pelle. Accettare di svolgere un mestiere gratis (o quasi) è la peggior mancanza di rispetto che si può attuare contro se stessi, ma anche nei riguardi del mestiere che si dice di amare. Senza contare che questo modo di proporsi nel mercato del lavoro è la causa principale delle storture su cui ormai si basa la nostra categoria: va a sminuire l’importanza del lavoro svolto, uccide la professionalizzazione, droga il mercato e non consente ai giovani di crescere. Se a fare il prezzo non sono dei professionisti ma una schiera di inesperti pronta a giocare al ribasso pur di esserci, non stiamo assistendo al libero mercato ma a un gioco al massacro che non fa bene né agli uni, né agli altri.