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Intervista a Stefano Gianuario, autore di Vanilla Scent

Abbiamo intervistato Stefano Gianuario, autore di Vanilla Scent. Non vorremmo cantarcela e suonarcela (questa introduzione non è stata scritta dall’autore dell’intervista), ma ne è venuta fuori un gran bella chiaccherata. Merito, naturalmente, anche di Stefano Gianuario e delle sue risposte niente affatto banali.

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Si dice che ogni scrittore racconti sempre di se stesso. In Vanilla Scent ci sei di sicuro tu, ma in che cosa ti rivedi particolarmente e in che cosa meno nel protagonista? In Vanilla Scent ci sono io per il semplice – ma non trascurabile fatto – che l’ho scritto io! Facili ironie a parte, nel corso della stesura del testo provavo sensazioni contrastanti man mano che la storia, il protagonista e i comprimari prendevano forma.
L’io narrante del personaggio principale parte dalla mia voce, dal mio pensiero, dalla mia forma mentis in generale, per poi diventare un individuo vero e proprio con riflessioni, e soprattutto azioni, del tutto sue. A un certo punto la mistura di sentimenti che provavo era in bilico tra abbracciarlo e volerlo prendere a schiaffi.

Nel tuo libro compaiono donne, alcolici e canzoni. In che ordine li metteresti? Nell’ordine inverso al tuo. Anzi no. Diciamo che la musica aleggia in tutte le pagine del testo, non c’è “un momento musicale”, per intenderci, è un continuo. C’è la musica ascoltata dal vivo in alcune scene, c’è quella ascoltata in auto, nelle case, diffusa nei locali, o semplicemente nella testa del protagonista.
Gli alcolici sono una conditio sine qua non, lo dico senza fare nessuna campagna a favore, intendiamoci. Il rapporto con l’alcol, con il bere del protagonista è intenso e, come ogni relazione vissuta profondamente, ha molti aspetti non tutti, va da sé, positivi.
Stesso discorso per le donne o meglio, con tutto quello che possiamo biecamente riassumere nel “femminile”: donne immaginate, sublimate, amate (carnalmente e non), detestate, desiderate, dimenticate e perdute. Amanti, madri, amiche.

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Hai un passato da musicista, quando la musica suonata ha influenzato il tuo modo di scrivere? Domanda talmente bella che non vorrei offenderla rispondendo. Credo che mi abbia influenzato nella misura in cui non mi bastava più. Mi spiego. Non il comporre, il suonare o l’esibirsi, che mi piaceva, mi nutriva, mi inebriava, quanto più lo scrivere le canzoni e lo spazio, per forza di cose limitato, che il testo in una forma canzone deve avere.
Musicista è un termine ingombrante per me, ero un discreto musicante, forse un buon autore. E ho pensato che fosse il caso di dare più spazio a quest’ultima natura che credo, forse anche a ragion veduta visto che scrivo nella vita e non suono, mi venisse un filo meglio.

Quanto la musica che ascolti invece ti influenza? Quanto lo fa l’aria che respiriamo. Da che ho una memoria che si possa definire tale, non ricordo un istante della mia vita senza musica, senza avere la foga disperata, una volta entrato in casa, di accendere un qualsiasi dispositivo, così come di avere una qualsiasi cosa per ascoltare musica in giro. Anni fa, non troppi a dire il vero, giravamo con walkman ingombranti e una sola musicassetta che dovevi ascoltare fino alla fine, lato per lato. Adesso, inutile ribadirlo perché mi annoio io da solo, non è più così e dalla musica non puoi scappare. Un po’ come dalla cultura, intesa come approvvigionamento, anche ingordo, di informazioni, come conoscenza. Ma forse sto andando fuori tema.

“Come uno shot di rum o una canzone di Elliott Smith” è una frase bellissima. Grazie. Credo che qualche chicca sia disseminata nel testo. Poche magari, ma ci sono.

Il protagonista si muove tra colloqui e incontri sessuali ma, leggendolo, si ha l’impressione che ci sia sempre una certa ansia non risolta in tutti e due le cose. Credo che la tua impressione sia ben fondata. Dico credo perché, man mano che il libro viene letto da altri, trovo anche io nuove chiavi di lettura, nuove interpretazioni, alcune sorprendenti, o se non altro in grado di sorprendere me.
Tornando alla domanda, il protagonista vive i colloqui di lavoro con il carico di aspettative che potrebbero essere prerogativa del rapporto sessuale, al contrario vive invece il sesso come ordinaria routine, senza alcun trasporto emotivo. In questo senso, come dici, non c’è niente di risolto, anzi.

Mi ha colpito molto in un libro rock’n’roll come il tuo la frase “le regole mi rendono più libero”, cosa intendi esattamente? E chi lo sa. No, dai. Forse scegliere regole da seguire prima che vengano imposte da altri è una libera scelta. O più probabilmente il protagonista aveva semplicemente “fatto il giro dall’altra parte”, ovvero era venuto meno a talmente tante disposizioni, aveva infranto tante di quelle barriere dal volere assolutamente nuovi dettami da seguire, per ritrovare una via, per dare un senso a se stesso.

Cos’è per te la trasgressione? Niente. Trasgredire non vuol dire assolutamente nulla. Può aver senso durante gli anni dell’adolescenza, quando si contesta senza sapere, senza capire e solo per il gusto di farlo. Adesso come adesso, l’andare contro a tutti i costi, il no aprioristico e più in generale il “non sono d’accordo anche se non ti ho neanche ascoltato” mi danno solo un’idea di bruttura, di pochezza, di perdita. Ed è un fare fin troppo diffuso, in Italia e non solo.
A furia di “sfondare” i luoghi comuni, termine che leggiamo in un’accezione un po’ rivista e lo intendiamo come “toccare il fondo”, qualcosa di vero si trova – in questo fondo – e penso che l’umanità si divida brutalmente in due. Coloro che fanno, con dovizia o imperizia che sia, le cose e coloro che distruggono e basta.
Non so se ho risposto la tua domanda, forse, sintetizzando e citando Kurt Cobain, avrei solo dovuto dirti “Teenage angst has paid off well, now I’m bored and old!”

C’è una rockstar o uno scrittore a cui hai pensato durante la scrittura di Vanilla ScentDovrei e farei prima a dirti a chi non ho pensato. Perché mentre scrivevo pensavo a tutti. Da Cobain di cui sopra, a Bukowski che mi parlava da una scritta a caratteri cubitali messa sul frigo dell’epoca, passando per De André che mi dava una mano facendomi riflettere, se non proprio sulla prosodia, almeno sul ritmo poetico e musicale del testo. E poi penso a Paolo Villaggio che mi ricordava che non c’è un modo migliore dell’essere dissacrante per essere presi sul serio, a Zafon che divoravo in quei mesi, all’ironia di Paolo Conte, alla malinconia di Elliott Smith e via così, lungo un elenco non meglio definito ma certamente infinito.

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Alla fine ti consideri un filosofo o no? Perché alla fine? C’è stato pure un inizio? Ahaha. A parte un esame di teoretica all’università dubito di aver troppa familiarità con la materia. Le definizioni mi vanno strette, i titoli ancor di più e il solo sforzo che sto facendo in vita è di considerarmi uomo, in quanto tale, con un minimo di decenza.

Dove scrivi di solito? Potrei dirti ovunque. Perché in effetti, per certi versi è così: prendo appunti mentali in ogni dove, in ogni momento della giornata. Ma non c’è l’errare poetico, taccuino in mano e sguardo disperso verso l’infinito, la scrittura in quanto tale richiede comunque un minimo di rigore.
Ricordo un’intervista a Nick Cave dove parlava della sua “stanza della musica”, ovvero di questo luogo “sacro” di una sua non meglio definita magione dove si recava per comporre e, per farlo, si vestiva di tutto punto anche se magari per giorni non usciva di casa. Ma in quella stanza andava con un abito completo, volto sbarbato e camicia inamidata. Credo che renda l’idea del rigore che intendevo sopra, non scriverei nulla di buono in un letto sporco, sommerso da resti di cibo e  umori sessuali, con la maglietta degli Smashing Pumpkins che avevo a sedici anni. Ecco, confido di essermi spiegato un filo meglio.

Quanto cambia la tua scrittura quando fai il giornalista rispetto a quando fai lo scrittore? Radicalmente? No, non so, non saprei. E perdona queste negazioni in climax. Ci metto la stessa cura nel passare un comunicato stampa per il portale del mio giornale, fare un’inchiesta da otto pagine, così come in un post sul mio “blog” (le virgolette sono più che obbligatorie) o cimentarmi con la scrittura di un romanzo. Non cambia niente, son sempre io, le mie dita che battono sulla tastiera e le combinazioni alchemiche che le lettere, ventuno o ventisei o quante ne vuoi a seconda dell’idioma, possono dare.
La sola differenza è che il lavoro giornalistico ha un committente, quello letterario, almeno prima che pubblicassi Vanilla Scent, di certo non lo aveva. O forse aveva il più severo e intransigente: me stesso.

C’è un tema su cui ti piacerebbe scrivere un libro? Se sì, con quale tappeto sonoro? Anche qui faccio prima a dirti su cosa non scriverei. Non scriverei mai un fantasy o un romanzo di fantascienza, per quanto mi possano piacere la mia fantasia ha bisogno di questa dimensione per esprimersi. Non scriverei mai una storia strappalacrime che mi vergognerei di rileggere due giorni dopo, un saggio-pippone esaltando figure o movimenti che con la parola scritta e il favore della storia diventerebbero tutt’altro.
Adesso che ci penso non scriverei un sacco di cose. Credo che il romanzo pseudo esistenzialista, introspettivo ma decisamente a ritmi scanzonati sia il mio principale – se non unico – terreno di gioco.

Quale libro leggi la mattina dopo una sbronza? Bella questa da tenere per ultima, eh. Diciamo che evito di sbronzarmi, se non altro evito di farlo come ne sono stato capace in alcuni frangenti, non esattamente encomiabili, dei miei trascorsi. Però, ricordando quelle sbronze, difficilmente seguivano letture chissà quanto edificanti.

Stefano Gianuario – Vanilla Scent  – Robin

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