Luca Bianchini ci ha raccontato la sua ultima fatica So che un giorno tornerai
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Hai cercato di depistare tutti con il meraviglioso aneddoto della scelta del nome della protagonista, ma in realtà hai scritto un romanzo con un respiro classico, popolare ma da classico. Be’ non so se è così, ma me fa piacere pensare che tu abbia trovato un respiro così grande.
Però, pensandoci bene, uno dei miei classici preferiti è Vita e opinioni di Tristram Shandy Gentiluomo di Laurence Sterne, libro in cui si spendono le prime cento pagine a discutere della scelta di un nome e tu rimani appeso a questa discussione per tutto il tempo. Quel libro mi ha sicuramente insegnato che si possono tenere “appesi” i lettori su questioni molto piccole ma fondamentali, cosa che io cerco di fare sempre nei miei libri.
Ovviamente io lo faccio coi miei mezzi e nei miei tempi, ma credo che, soprattutto nella prima parte del libro, ci sia questa voglia “classica” di tenere incollato il lettore su una questione piccola/grande come quella della scelta del nome della protagonista.
Quindi mi sono messo alla ricerca di un posto. Trieste è una città in cui mi piace sempre tornare, ma in cui faccio fatica ad andare. Mi sembrava inoltre che questa scelta alzasse l’asticella della difficoltà di raccontare questa storia, ambientandola appunto in una città così complessa come Trieste, una città-stato che ha regole sue, un suo linguaggio, in cui devi entrare in contatto con la gente discretamente.
Poi quando so che una cosa è difficile da fare, essendo io un ambizioso, se penso di poterci riuscire, mi ci getto, voglio vincere la sfida.
La figura del “jeansinaro” Pasquale com’è nata? Di Pasquale conoscevo la vera professione, legata comunque all’abbigliamento, ma non conoscevo la figura dei “jeansinari”. Quando sono andato a Trieste, ho iniziato ad intervistare un po’ di persone, soprattutto i miei Virgilio, ed è venuto fuori questo fenomeno, me ne sono innamorato subito. Da lì ho iniziato a fare qualche intervista ed ho visto un documentario “Trieste-Yugoslavia”, che ti consiglio moltissimo: un documentario fatto benissimo con filmati dell’epoca, in cui vedi questa invasione di pullman, gente che scendeva in massa in Piazza Ponterosso per comprare solo jeans, li arraffavano, le donne se li nascondevano sotto i gonnelloni per prenderne il più possibile.
Questo succedeva perché per gli abitanti della ex-Jugoslavia i jeans erano il simbolo della libertà, dell’Occidente, della ricchezza. Coloro li vendevano erano spesso persone del Sud che si sono arricchite moltissimo. Quando parli coi triestini, per loro questo fenomeno è molto ovvio e quando una cosa è molto ovvia per alcuni e per me è completamente sconosciuta ne rimango affascinato.
Mi ha colpito la tua solita capacità di cogliere piccoli particolari della vita quotidiana: penne al prosciutto e panna è un ricordo eccezionale degli anni Ottanta. Come ti sei immerso nella vita degli anni Ottanta di Trieste? Uno dei miei Virgilio è una docente di Diritto dell’Università di Trieste, nonché appassionata di cavalli, che aveva letto il mio primo romanzo Istant Love e mi ha ritrovato per caso.
Devo dire che di questo scambio di racconti su Trieste abbiamo beneficiato entrambi, perché per lei è stato un po’ un ripasso della sua vita, delle sue abitudini triestine.
L’altro Virgilio è un giovane trentenne, Marco Segulin, che avrebbe dovuto aiutarmi a cercare esperti da intervistare, ma che in realtà si è rivelato talmente innamorato della storia della sua città da diventare lui stesso la mia guida a Trieste.
El Pipan è ispirato ad una persona reale? El Pipan è una figura vecchia come il mondo, in cui sicuramente ci sono tanti particolari che ho raccolto dai racconti dei miei collaboratori. In particolare Marco Segulin che mi ha raccontato di suo nonno che aveva la foto di Francesco Giuseppe in cucina e tanti elementi di pura invenzione che ho aggiunto perché mi piaceva creare questa figura.
Sai alla fine il mio lavoro di romanziere è quello di cogliere particolari veri e rimetterli in una storia arricchita dalle mie invenzioni e dalle cose che mi piacciono, altrimenti farei pura cronaca. Quando un evento è vero e accaduto o vissuto da almeno una persona io mi sento pronto a raccoglierlo e ad usarlo, perché la vita mi ha detto che è la verità, quindi posso essere convincente nel raccontarlo.
Tre dei tuoi libri sono diventati film, dopo avere visto la loro trasposizione al cinema è cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere? Vedere le tue parole sullo schermo ha cambiato la tua costruzione delle storie o dei personaggi? Il cinema mi ha insegnato a ragionare più sulle azioni e pensare come variare le situazioni. La scena della pesca di Ferruccio magari l’avrei raccontata in altro modo. Il cinema mi ha insegnato ad avere il coraggio di variare le scene e aggiungere azioni.
In Io che amo solo te ti sei ritagliato un cameo divertentissimo nei panni di un carabiniere. Se dovessi scegliere un cameo nell’ipotetico film di So che un giorno tornerai che ruolo ti ritaglieresti? Io voglio fare uno dei due zii di Emma, quello Coccolo che cura la bambina con la parrucca di Monica Vitti.
Che libro hai sul comodino? Pierre Lemaitre I colori dell’incendio, libro di un autore a cui sono molto affezionato e di cui consiglio Ci rivediamo lassù, opera davvero straordinaria. Ora mi avvio a leggere appunto I colori dell’incendio e sono molto curioso.
Luca Bianchini – So che un giorno tornerai