Abbiamo intervistato Elena Contenta Patacchini autrice di 52 Hertz – Manuale di istruzioni per anima danneggiata. Un bel modo per scoprire la giovane scrittrice e per suggerirvi la lettura del suo libro.
Leggi la recensione di 52 Hertz – Manuale di istruzioni per anima danneggiata
Hai scritto un libro in cui ti confronti con autori eccezionali della storia della letteratura. Cos’è per te la letteratura? Non penso si tratti propriamente di confronti. Li considero più degli incontri, accidentali e accidentati, attesi, presentiti, sorprendenti. Snodi di un grande percorso, croci su una mappa che sta portando da qualche parte; la letteratura, in questo senso, fa un po’ da foglio e un po’ da matita, un po’ da partenza e un po’ da arrivo. La letteratura è il senso e lo strumento che consente queste continue intersezioni, questa meravigliosa ricerca di indizi, questa – pressoché infinita – possibilità di scoprire zone misteriose e andare ad esplorarle.
La letteratura è solitudine o condivisione? Difficile. Credo che la letteratura sia un’immensa solitudine che trova senso solo quando vista, sentita, trovata da qualcun altro: quella vera è certamente un grande silenzio, che pure qualcuno riesce a sentire. Io, poi, di letteratura non me ne intendo. Al massimo, a volte, mi riesce di pensare un poco alla scrittura, che è certamente una cosa molto sola.
Il senso di fumare le sigarette di nascosto ha a che fare anche con la scrittura? Ho sempre pensato che esista una poesia enorme nella clandestinità, e ho sempre avuto una certa passione per la ricerca di ciò che non è in luce, per la ricerca di quel qualcosa che, seppur al buio, vive e agisce. Il gusto di avere a che fare con quella componente occulta ha molto a che fare con la scrittura, credo. Alla fine, non è del tutto sbagliato dire che si scrive sempre di nascosto.
Il tuo libro è un continuo confronto con non-presenze. Cosa ti ha portato a cercare questa chiave poetica? L’assenza ha spesso la stessa grandezza emotiva della presenza, ma senza i limiti che questa seconda comporta. Scegliere – più o meno volontariamente – di circondarsi e scontrarsi con le non-presenze sta nel cadere vittima del fascino (non gratuito, mai gratuito) di quella libertà propria di stare in compagnia di qualcuno che non c’è.
Il libro si apre con un’immagine di solitudine addirittura biologica. Quanto ha contato la solitudine cercata o obbligata per la tua scrittura? Per la scrittura la solitudine è stata una benedizione. Sicuramente è arrivata come uno stato obbligato, che risultava più che altro doloroso e invero poco produttivo. Mancava il concetto di attesa, suppongo. Quando, più avanti, la solitudine è diventata una scelta, pazientare seduti è diventato un fatto sopportabile – oltre che seducente – e solo così si sono create quell’immobilità e quel silenzio necessarie a capire che c’era qualcosa da andare a vedere e di cui poi, magari, raccontare.
Cos’è la solitudine nel 2018? Non ho mai considerato il concetto di solitudine in stretta correlazione a un’epoca. Credo che continui a essere un’idea, uno spazio soggettivo in maniera irrisolvibile. Una sensazione che cambia senso costantemente per ciascuno. Per me, al momento, solitudine è prepararsi i sofficini senza fretta.
I morti anche loro, più che altro, sono morti e sono personaggi che fanno quello che possono, che se uno ci pensa non è granché, però alla fine se uno ci pensa, dico se ci pensa davvero, in realtà è proprio tanto.
Lo spigolo, infine, è un personaggio nato per conto suo e in modo anarchico: ha preso parola senza preavviso, come un’entità incapace di concepire l’alterità, come un essere incosciente dei perimetri dell’altro che esercita una sorta di violenza non violenta, che reputo la peggior cosa che un essere umano può fare a un altro essere umano o, in questo caso, che un essere spigolo può fare a un essere umano.
All’inizio del libro lo citi e poi gli dedichi un capitolo, Georges Perec è l’autore dell’immobilità e degli oggetti, penso a Le cose. Che rapporto hai con gli oggetti e soprattutto con gli spazi? Una frase che mi sono sempre portata dietro di Perec è “adesso, nel piccolo salotto, resta ciò che resta quando non resta niente”. Perché resta sempre qualcosa. Cose, oggetti, dettagli, odori: qualcosa. Come reazione alla velocità, come metodo per rallentare, ho sempre dedicato tempo all’osservazione dei chi, e soprattutto dei cosa e dei dove. Diventa una sorta di ossessione, intesa in senso parecchio etimologico. Difficile da raccontare, ma anche da curare.
Mi ha colpito questo senso di spazio che compare tante volte nel libro: tu scrivi sempre di uno spazio chiuso, che sia un bar o una stanza. Perché? Ho passato tanto tempo a ragionare sugli spazi: sulle case, sulle stanze, sui mezzi di trasporto, sui bar. Li trovo affascinanti per la loro indole di mondi altri che stanno dentro al mondo. Mi interessano i perimetri – spesso solo immaginari – che tracciano; mi interessano le regole inesistenti, eppure precise, che li muovono. Li trovo sempre metafore azzeccate per qualcosa che non è per forza necessario dire. Non amo i parchi, peraltro, e questo probabilmente ha un ruolo.
Con quale scrittore ti confronti spesso ma non troviamo nel libro? Mi sentirei di citarne addirittura cinque in questo momento: Julio Cortázar, Roberto Bolaño, Tommaso Landolfi, Alberto Savinio e Salvatore Satta.
Due libri che ti fanno paura e che non vorresti leggere mai. Due che vorresti leggere sempre. Non penso di aver mai sentito paura di fronte a un libro: leggere è una delle cose più piacevoli che abbia fatto nella vita. Piuttosto, a volte, ho sentito poco desiderio o sincero fastidio durante la lettura di alcuni lavori; se ci penso, mi è capitato quando ho percepito che l’autore si stava tenendo a distanza di sicurezza dalle proprie parole. Lo trovo ingiusto e un po’ da pavidi. Adoro leggere, al contrario, tutte quelle opere in cui sento che chi ha scritto è rimasto fermo a prendersi le conseguenze. Più facile la seconda parte; ora come ora, direi, “Rayuela” di Cortázar e “I detective selvaggi” di Bolaño.