Beyond Vanja, Teatro Litta Milano

Una delle piece più celebri di Cechov riadattata in maniera fresca e attuale dal regista Francesco Leschiera. Il dramma della non relazione, delle occasioni mancate, del rimpianto lancinante. In sostanza, il dramma di vivere, senza aver vissuto davvero.

Metto subito le carte in tavola, Cechov non lo conosco, come non conosco Zio Vanja, piece tra le più celebri del drammaturgo russo e di cui Beyond Vanja è l’adattamento, secondo il gusto e la visione del regista Francesco Leschiera. Non aspettatevi dunque nessun tipo di recensione dotta da parte mia, quello che verrà fuori, condivisibile o meno, sarà qualcosa che nasce dalla pancia appena finito lo spettacolo, macerato durante il ritorno a casa e trascritto in pagina (a video, vabbè) sotto la lente della consueta Morettona da 66 con cui amo darmi la buonanotte.

Però, mi sono documentato, quindi posso dire che Beyond Vanja, in programmazione dal 17 novembre fino al 27 nella splendida e raccolta cornice de La Cavallerizza al teatro Litta di Milano è un rielaborazione del testo di Cechov, Zio Vanja per l’appunto, impreziosito da un interessantissimo spunto drammaturgico. Il regista milanese Francesco Leschiera, infatti, ha messo in scena l’elaborazione di Antonello Antinolfi che prevede la sottrazione, nel senso fisico del termine, di alcuni personaggi del testo originale di Cechov per farli vivere attraverso la loro assenza. Personaggi fondamentali come il Professor Serebrjakov, “motore immobile” della piece, dunque, in Beyond Vanja esistono solo per bocca e reazioni degli altri, situazione che giocoforza va a creare una nuova chiave di lettura dell’opera. Il Cechov diretto da Leschiera (e che scena, ragazzi. Ma di questo parlerò dopo), dunque, obbliga lo spettatore a interrogarsi sulle dinamiche di coppia dei personaggi “sopravvissuti”. Per semplificare brutalmente: si tratta di un occhio indagatore su quattro modi diversi di fallire la propria vita. Ci sono le frustrazioni per un’esistenza spesa nel nulla di zio Vanja e il suo amore disperato e non corrisposto per Elena, la seconda moglie di Serebrjakov. Pigra e bellissima, frustrata nella sua passione musicale, Elena è l’epicentro del desiderio d’amore non solo di Vanja, ma anche di Astrov. Poi c’è Sonia, nipote di Vanja e figlia di Serebrjakov, giudiziosa, diligente, pervasa di spirito di abnegazione. Lei è innamorata di Astrov, che ovviamente non la corrisponde. Infine, appunto, Astrov, medico di campagna con enormi ideali, uomo dotato dell’intelletto giusto per riuscire, ma del tutto privo dello slancio vitale per farcela davvero. A fare da collante a questi quattro c’è Telegin, tuttofare della casa, proprietario decaduto, l’unico che non soffre la vita perché ha capito che l’unico modo per sopravvivere è sedersi buoni e aspettare. Le loro esistenze vengono a contatto senza mai intrecciarsi realmente, bisognosi di attrarsi reciprocamente (ognuno con le sue armi) ma senza essere in grado di mischiarsi sul serio, come il saluto di due amanti separati da un vetro. Le loro vite scorrono apatiche attorno a una tavola imbandita, aspettando qualcosa che non arriva e che loro non sono in grado di crearsi spontaneamente. La vita, in fondo, ce lo spiega Sonia che cos’è: una lunga, lenta marcia verso la morte, costellata di dolore e privazioni, il cui unico spunto di gioia è l’idea di una ricompensa ultraterrena (“finalmente, ci riposeremo!”).

Fin qui, la trama. Ora è giusto spendere qualche parola sulla cornice in cui si muovono i cinque  personaggi. La sala della Cavallerizza del Tetro Litta, caratterizzata da mattoni, travi a vista e dalle dimensioni raccolte ha permesso a Leschiera di realizzare una scena a mio modo di vedere perfetta: al centro di tutto una tavola imbandita, recintata da sei pannelli di plexiglas che dividono realmente oltre che simbolicamente i diversi piani di lettura. Ai due capotavola sono stati ricreati due corridoi (che passano in mezzo al pubblico) dove gli attori entrano ed escono di scena, uno di questi è dotato di un’altalena. Sotto i piedi degli spettatori un letto di foglie secche, nell’aria un odore intenso di incenso. I tre elementi principali, tavola, plexiglas e altalena sono tre diverse rappresentazioni della noia, della difficoltà di vivere dei protagonisti in scena. Se la tavola è la vera protagonista, luogo dove gli attori mangiano e bevono costantemente nel corso dei vari atti, e rappresenta alla perfezione il proseguire lento e inutile della vita (“Da quando Serebrjakov e la moglie si sono installati in questa casa, nessuno fa più nulla. Si mangia e si beve soltanto”), per mio gusto personale ho trovato meravigliosamente incisivi gli altri due. Il plexiglas crea una sorta di spazio neutro, all’interno della quale gli attori si muovono, ma sa trasformarsi in efficace barriera “dentro-fuori” quando qualcuno di loro prova il “contatto” con l’altro. So che probabilmente è da matti, ma un delle immagini che mi porterò nel cuore di questo spettacolo è proprio l’impronta della mano di Sonia lasciata su una delle lastre, nel momento in cui prova ad esprimere ad Elena il suo amore per Astrov. Altro bell’espediente è l’altalena, su cui a turno gli attori salgono e che rappresenta ancora una volta la tensione, il desiderio di provare ad “andare” e l’incapacità reale di farlo. Il movimento dell’altalena è per certi versi nullo, in altri nervoso, a voler significare una volta di più una tensione che l’uomo naturalmente ha, ma che altrettanto naturalmente è inadatto a risolvere. Insomma, Leschiera è riuscito a disegnare una scena in cui contemporaneamente lo spettatore è dentro, coinvolto, ma si ritrova anche a godere di diversi punti di vista. Un palco che non è palco ma che diventa attore esso stesso, offrendo ogni volta uno scorcio e un’interpretazione diversa.

Un’ultima parola sugli interpreti. Davvero bravi. Le parti più complicate, suppongo quelle in cui il copione è stata lavorato per sopperire alla voluta mancanza di alcuni dei personaggi, sono state superate brillantemente. La capacità degli attori di trasmettere le varie emozioni è stata, almeno per quanto riguarda me, decisamente efficace. Ettore di Stasio, ha portato in scena un Vanja rabbioso dalla voce impetuosa e convincente. Matteo Ippolito mi è piaciuto un sacco perché è riuscito a rendere credibile la tensione di un uomo tormentato come Astrov, nonostante la natura lo abbia dotato di un fisico “curvy”: la sua forza era negli occhi ed è arrivata tutta. Chiudiamo la carrellata di personaggi maschili con Alessandro Macchi, ossia il nobile decaduto Telegin. Per due ore Macchi si muove all’interno della scena come l’unico vero elemento imperturbabile dell’insieme. Sorriso a mezz’asta costante, ha portato in scena in maniera credibile l’unico personaggio vittorioso (se così si può definire) della piece. Veniamo alle donne. Giulia Pes è Elena. Bella, apatica e indolente. I suoi occhi riescono bene a trasmettere queste emozioni. Il suo personaggio è forse quello con le battute meno sofferte, ma lei è riuscita a renderlo lo stesso intenso giocando alla perfezione con la mimica. Io ho assistito alla rappresentazione seduto affianco all’altalena dove lei entra in scena per la prima volta e dove viene descritta agli altri da un geloso Vanja. Beh, se fossi stato seduto a quella tavola me ne sarei innamorato anche io. Veniamo all’ultima attrice, Sonia Burgarello, che interpreta la sua omonima Sonia. A mio modo di vedere è stata semplicemente fenomenale. Amore, dolore, speranza, paura, rassegnazione, tutto perfettamente trasmesso al pubblico grazie a una capacità recitativa completa, che parte dalla voce fino ad arrivare ai più piccoli scatti nervosi delle mani. Chapeau.

Su massimo miliani

Ho il CV più schizofrenico di Jack Torrence, per questo motivo enunciare qui la mia bio potrebbe risultare complicato. Semplificando, per lo Stato e per l'Inpgi, attualmente risulto essere giornalista.

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